Per circa un decennio, tra la fine degli anni Duemila e quella degli anni Dieci, Facebook è stato l’emblema di ciò che la maggior parte degli utenti sembravano volere da internet, ovvero uno spazio su cui condividere in modo più o meno sincero e disinteressato pensieri, esperienze ed emozioni con una rete di persone. La maggior parte di loro erano amici e parenti, o almeno conoscenti o amici di conoscenti. Certo, si seguivano anche le pagine di artisti, politici e altri personaggi pubblici, e poteva anche capitare di diventare a propria volta personaggi piuttosto seguiti per le proprie opinioni. Ma la promessa dei social network per molti anni è stata quella di permettere a chiunque di rimanere regolarmente aggiornato anche sulla vita di persone che si sarebbero altrimenti perse di vista, all’interno di enormi piattaforme utilizzate da un numero sempre crescente di persone.
Di recente, però, questa promessa sta perdendo attrattiva sia tra le generazioni più giovani, che non ne hanno mai capito davvero il fascino, sia tra chi è stato su Facebook, Instagram o Twitter fin dall’inizio e ha sempre meno voglia di usarli, se non in modo passivo. Questa tendenza, accompagnata ai licenziamenti di massa nel settore tecnologico e alla sensazione che Twitter potrebbe diventare qualcosa di molto diverso da quando è stato acquistato da Elon Musk, stanno portando vari opinionisti a parlare della fine dell’era dei social network. Almeno per come li conosciamo.
Diverse analisi sottolineano che è in corso da tempo una transizione verso un modo di condurre la propria vita online diverso da quello a cui si era abituati negli anni Dieci. Charlie Warzel, che scrive da anni di cultura di internet, ha recentemente detto che «i social media stanno morendo solo se li definisci come feed pubblici pieni di cose pubblicate dai tuoi amici. Perché quelli, effettivamente, sembrano in via d’estinzione, in parte soppiantati dai feed curati dagli algoritmi» (per feed si intende il flusso di post che appaiono sulla homepage di un social).
E secondo un altro esperto commentatore delle tendenze social, il giornalista Ryan Broderick, i social media modellati su Facebook degli anni Dieci stanno patendo le conseguenze di due tendenze parallele.
La prima è l’ascesa delle piattaforme colme di contenuti generati da creator, che vengono però consumati dalla maggior parte degli utenti in modo passivo, come se fossero Netflix o in televisione. In questa categoria rientrano TikTok, Twitch e YouTube, su cui«scrolli per varie ore, e forse ti viene anche voglia di fare un video o un piccolo progetto, ma saresti molto sorpreso se trovassi un post di tua nonna, a meno che tua nonna non sia fighissima». Questa teoria è sostenuta dai dati: su TikTok, che da tempo si definisce una piattaforma di intrattenimento e non di social network, il 66 per cento degli utenti non crea video, ma si limita a consumarli da spettatore. Su Twitch, si stima che per ogni “streamer” – ovvero gli utenti che usano la piattaforma per fare video in diretta – ci siano 28 spettatori passivi.
Nel corso dell’ultimo anno TikTok ha raddoppiato i soldi guadagnati attraverso le pubblicità, cosa che ha spinto Meta (l’azienda precedentemente nota come Facebook) a trasformare le proprie principali piattaforme – Instagram e Facebook – per imitarlo un po’: modificando il design e dando maggiore preminenza ai contenuti creati da sconosciuti che però, secondo l’algoritmo, potrebbero piacere all’utente. Molte persone che usano Instagram più o meno dall’inizio, però, hanno reagito molto male a questo tentativo di “tiktokizzazione”.
La seconda tendenza descritta da Broderick, e che secondo lui sta cambiando i social per come si erano strutturati nello scorso decennio, ha spostato quel genere di contenuti più privati e condivisi un tempo con la cerchia di amici verso quello che chiama «il tuo internet locale, composto da chat di gruppo, mega app di messaggistica come WhatsApp e Telegram e piattaforme di contenuti effimeri come Snapchat o le storie di Instagram». All’interno della tendenza può essere fatto rientrare anche BeReal, il social network che una volta al giorno, alla stessa ora che cambia casualmente tutti i giorni, chiede ai suoi utenti di pubblicare quello che stanno facendo in quel momento. E anche Discord, app di comunicazione su cui ci si riunisce principalmente in base ad interessi comuni.
I motivi di questo cambiamento sono molteplici: hanno influito in parte i tanti scandali legati alla privacy e alla moderazione dei contenuti che hanno coinvolto Facebook a partire dal 2016 e che hanno fatto passare la voglia a molte persone di usare la piattaforma. Ma c’è anche una sensazione di stanchezza e disagio generale nel continuare, dopo anni e anni online, a pubblicare aggiornamenti sulla propria vita privata all’interno di piattaforme che si sono evolute più per diventare delle vetrine per aziende ed influencer che per continuare ad essere abitate da esseri umani qualsiasi.
«Sono sicura di non essere l’unica utente che si è ritrovata a rifuggire dall’abitudine molto pubblica, spesso performativa e persino stancante, di pubblicare regolarmente aggiornamenti su Facebook e Instagram», ha scritto su Wired la giornalista Lauren Goode. E anche creatori di contenuti molto popolari che un tempo avrebbero legato la propria carriera ai grandi social network stanno spostando la propria comunità su servizi in cui è più facile parlare direttamente e con un maggiore senso di privacy con i propri follower, come Discord, Substack, Telegram e Geneva (app per le chat di gruppo che in Italia è poco conosciuta, ma negli Stati Uniti è molto in voga).
«In un certo senso, la chat di gruppo sembra un ritorno all’era felice di Messenger, che una volta era il metodo più diffuso per scherzare con i tuoi amici su internet. Ma nella mia vita, le chat di gruppo – su iMessage, WhatsApp, Slack, Instagram, Twitter, Facebook Messenger o qualsiasi altra app o piattaforma – non sono semplicemente modalità aggiuntive di socializzazione. Sono un vero e proprio sostituto della modalità determinante dell’organizzazione sociale dell’ultimo decennio online: il social network incentrato sulla piattaforma e basato sui feed», ha scritto il critico Max Read sul New York Magazine, «per me, almeno, le chat di gruppo non sono il nuovo Messenger. Sono il nuovo Facebook».
Il Center of Data Science and Complexity dell’Università La Sapienza di Roma sta analizzando oltre 100 milioni di profili. L’obiettivo è arrivare a un metro per misurare la tossicità di Facebook, Twitter e le altre piattaforme. Grazie alla legge di Godwin: basta che una discussione online sia sufficientemente lunga che verrà chiamato in causa il nazismo o Hitler. Ma il sospetto è che dietro tutto questo, specie da noi, ci sia ben altro. Una storia complessa che ha a che fare con il nostro passato e con quanto accaduto online nel 2009.
Gli smartphone: oltre l’85% dello scambio informativo avviene in mobilità
“Chi osa affermare qualcosa di diverso dal ‘mainstream’ viene subito attaccato. Gli si dice che non può andare in tv a sostenere che due più due fa cinque. Ma chi lo ha detto che due più due deve fare quattro?”. Il tono della telefonata si era inasprito rapidamente con il passare dei secondi, ricalcando lo schema dei tanti scontri verbali che stiamo leggendo su Facebook. Al punto che l’ascoltatore catanese, intervenuto alla trasmissione mattutina Prima Pagina di Radio 3, per un pelo non ha insultato in diretta il conduttore che lo stava ascoltando. Conta poco in questa sede il tema, l’invasione dell’Ucraina, e lo schieramento al quale aderiva l’ascoltatore. Perché su un punto ha ragione: dobbiamo capire quanto fa due più due nell’era dei social network. La risposta non è quattro né cinque, bensì “Hitler” oppure “nazisti” e non ha alcuna importanza l’argomento trattato. Basta che la discussione duri a sufficienza e fra botta e risposta verrà chiamato in causa il Führer o la sua ideologia. Inevitabilmente. Mentre la verità di una somma matematica ormai può essere contestata con assoluta disinvoltura, come accadeva nella distopia del romanzo 1984 di George Orwell, abbiamo la certezza che il fondatore del nazionalsocialismo tedesco nelle nostre discussioni sul Web è una presenza fissa. E’ la figura più usata per insultare, bollare l’avversario, descrivere cosa sta accadendo, magari tutto scritto in lettere maiuscole. Con una frequenza che non ha praticamente eguali e che dice parecchio del grado di conflittualità.
Sulle tracce della legge di Godwin
Si tratta di una legge, formalizzata per la prima volta nel 1990 dall’avvocato statunitense Mike Godwin, per descrivere le dinamiche dei commenti sulle bacheche virtuali del tempo. A quanto pare vale ancora oggi, anzi: vale sempre di più. A sostenerlo il Center of Data Science and Complexity for Society che, a dispetto del nome, è italianissimo e basato all’Università la Sapienza di Roma. I suoi ricercatori stanno cercando di misurare il fenomeno descritto da Godwin. E lo stanno facendo su larga scala analizzando il profilo di cento milioni di utenti soprattutto europei, su cinque diversi social media: Facebook, YouTube, Reddit, Twitter, Gab, Voat, poi chiuso a fine 2020, oltre a dati provenienti da diversi forum. I risultati definitivi verranno pubblicati questa estate, ma già ora possiamo anticipare alcune tendenze.
“La legge di per sé è al limite dell’ovvio”, spiega Matteo Cinelli, a capo del progetto. Laureato e ingegneria gestionale, 32 anni di Roma, è finito a occuparsi di reti complesse per poi approdare all’informatica e oggi dalla metodologia è passato all’applicazione pratica. “In una stanza che si affolla di persone, le probabilità che si incontri qualcuno esacerbato diventa certezza su base statistica. Ciò che è meno evidente sono le modalità con cui la legge di Godwin tende a manifestarsi, ovvero se esistono delle molle precise e un tempo medio per la comparsa dell’accusa di nazismo, che è un termine con un valore semantico perfetto per uno scontro verbale da tastiera. Soprattutto se tali variabili cambiano secondo la piattaforma e l’argomento. Studiare una tale dinamica speriamo possa portare ad avere un metro accurato per misurare il livello di tossicità di singoli social network”.
La ricorrenza statistica di certe parole e il lasso di tempo necessario alla loro comparsa dovrebbero quindi dirci se un social network porta allo scontro più di un altro. Il numero di “Hitler” o “nazisti” e un tempo molto breve affinché facciano il loro ingresso, potrebbe significare un maggior grado di tossicità. E sarebbe forse la prima volta che questa tossicità viene provata in maniera scientifica grazie alla reductio ad Hitlerum o reductio ad nazium come la chiamava Godwin.
Non chiamatele chiacchiere da bar
Supponiamo di essere al bar coinvolti in una discussione. Se qualcuno desse del nazista a qualcun altro o paragonasse le sue posizioni a quelle di Hitler è altamente probabile che lo scontro verbale finirebbe lì oppure degenererebbe in rissa. Sui social network prosegue. Lo dimostra un’altra ricerca, stavolta ad Harvard, pubblicata a dicembre del 2021 su New Media & Society: Hitler e nazismo non troncano la conversazione. Almeno secondo gli autori, fra i quali c’è Gabriele Fariello.
Esperto di intelligenza artificiale, 51 anni, nato a Torino ma trasferitosi negli Stati Uniti quando era piccolo, con i suoi colleghi ha analizzato 14 miliardi di messaggi su Reddit, incluse le risposte e le contro risposte. “Abbiamo cominciato a studiare la legge di Godwin per divertimento, non volevamo nemmeno arrivare a pubblicare uno studio”, spiega da Cambridge, in Massachusetts. “Ma avendo avuto la possibilità di sondare tutti quei dati grazie all’intelligenza artificiale, alla fine ne è uscita fuori una ricerca. Alcune delle scoperte, che ancora devono essere pubblicate in un secondo articolo più ampio, riguardano non solo il nome di ‘Hitler’ o l’aggettivo ‘nazista’ ma anche altri termini. La probabilità che vengano introdotti non è matematica da quel che abbiamo osservato, al contrario di ciò che sostiene Godwin. Ma una volta che compaiono e prendono piede diventando dominanti. Le discussioni online seguono logiche completamente diverse da quelle al bar. Più vanno avanti più diminuisce la possibilità che siano introdotte altre tematiche come invece capita magari a cena dove è facile cambiare argomento. Nell’online le discussioni si fanno verticali quasi subito su un solo tema e se si cita Hitler e di dà del nazista a qualcuno, di fanno ancora più lunghe”.
Reddit però, sottolinea Fariello, ha delle logiche diverse da Twitter o Facebook. E’ una piattaforma suddivisa in canali tematici fortemente moderati dagli stessi utenti. Somiglia quindi al contesto studiato da Godwin nel 1995 e fino a poco tempo fa non usava algoritmi di raccomandazione come avviene altrove. “Su Twitter e su Facebook lo scenario è completamente differente anche per quanto riguarda gli strumenti di analisi che sono più difficili da usare”, aggiunge il ricercatore italoamericano. “C’è la resistenza di queste piattaforme a offrire i dati necessari per le indagini”. Lui e i suoi colleghi hanno però intenzione di provarci, come sta facendo il gruppo di La Sapienza di Roma. Nel frattempo, Mike Godwin ha contestato i risultati dell’indagine di Harvard. Non ama affatto che la sua legge venga messa in dubbio, nemmeno parzialmente, e su Twitter non risparmia i giudizi taglienti.
Problemi di percezione
La tossicità dei social network l’abbiamo avvertita tutti, specie in questo periodo. La guerra in Ucraina è diventata l’ennesimo specchio nel quale mostrarsi con le proprie bandiere identitarie, le posizioni radicali, il repertorio di insulti a portata di tastiera, la negazione sistematica degli argomenti della parte considerata avversa. Quel che si legge sembra in alcuni casi non avere nemmeno più a che fare con quanto avviene a Kiev e dintorni. Qualsiasi sia il singolo fatto trattato, il risultato di una somma viene comunque contestato in un rovesciamento di prospettive dove è sempre possibile negare. La realtà ovviamente continua ad esistere, ma esiste anche il riverbero che ha in noi. Se volete l’interpretazione, più o meno emotiva, che ne facciamo in base alle nostre idee già costituite. Quando la distanza fra la prima e la seconda diventa troppo ampia non c’è metro scientifico o risultato che tenga perché non è più un tentativo di leggere dei fatti.
La Ipsos, agenzia di ricerca e consulenza francese, da alcuni anni ha iniziato a misurare il grado di errore nella percezione delle persone scoprendo che il mondo è sostanzialmente strabico. La ricerca, Perils of perception, nell’edizione 2018 aveva messo a confronto 37 Paesi, dalla Nuova Zelanda al Canada passando per la Francia, la Germania, il Belgio e l’Italia. Oltre 28mila interviste, il campione rappresentativo per l’Italia era di mille persone, con domande uguali per tutti su aspetti che vanno dalla società all’economia. Un gioco, se così lo possiamo chiamare. E’ lo stesso che faceva l’accademico svedese Hans Rosling nel saggio Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo (Rizzoli).
La tesi di Rosling è che tendiamo a non vedere quel che è in mezzo, fra il bianco e il nero, ciò che conta nella maggior parte dei casi. La buona notizia è che nelle indagini Ipsos gli italiani non sono all’ultimo posto nella graduatoria delle nazioni con il tasso più alto di sottostima e interpretazione errata. Ma in certi ambiti perdiamo completamente la bussola. Dal livello di immigrazione a quello della corruzione, fino al numero di omicidi o all’ammontare della popolazione carceraria, tutti regolarmente sovrastimati. Al contrario della ricchezza pro-capite o la qualità della sanità pubblica, che sono invece sottostimate. Insomma, abbiamo una visione molto più pessimista del nostro Paese di quel che sarebbe sensato avere.
Cosa c’entra il patrimonio degli italiani con Facebook
Perché accade? Difficile dare una risposta sola, aiutano però alcuni dati: l’Italia resta fra i primi dieci Paesi al mondo per prodotto interno lordo (Pil) e fra i primi trenta per reddito pro-capite. Potremmo fare di più, lo abbiamo fatto in passato, ma la lista di chi ha fatto peggio è più lunga rispetto a quella di chi ha fatto meglio. Nel nostro Paese però negli ultimi trent’anni i livelli di concentrazione della ricchezza sono aumentati. Siamo ancora nella media dell’Unione europea, con la differenza che gli stipendi non sono cresciuti e il reddito pro-capite è inferiore a quello degli anni Ottanta, fatte le dovute proporzioni.
“Lo 0,1 per cento più ricco ha visto raddoppiare la sua ricchezza netta media reale facendo raddoppiare anche la sua quota della ricchezza totale, dal 5,5 al 9,3 per cento. Al contrario, il 50 per cento più povero controllava l’11,7 della ricchezza totale nel 1995 ed è passato al 3,5 nel 2016. Ciò corrisponde a un calo dell’80 per cento, unico caso del genere fra i Paesi avanzati”. A parlare è Salvatore Morelli, 38 anni, originario di Roccadaspide, nel Cilento. Insegna scienze delle finanze all’Università degli Studi Roma Tre, nel dipartimento di giurisprudenza. Si occupa di diseguaglianze economiche fin dai tempi della tesi di laurea.
“La metà meno agiata degli Italiani adulti ha visto diminuire il proprio patrimonio dal 1995 ad oggi da 27mila euro di media a cinquemila euro. Sono circa 25 milioni di persone, fra le quali 10 milioni hanno meno di duemila euro. Parliamo di patrimonio, non di reddito pro-capite. Sono quindi dati che provengono non dalla dichiarazione dei redditi ma dai registri delle imposte di successione presentate all’Agenzia delle entrate dal 1995 al 2016”. Queste informazioni relative alle eredità, aveva già sottolineato Morelli in un articolo pubblicato su Lavoce.info di aprile 2021, permettono di osservare meglio la distribuzione della ricchezza nonostante l’esistenza dell’evasione ed elusione fiscale.
“La diseguaglianza in Italia sta accelerando e assumendo ritmi statunitensi” prosegue Morelli. “Abbiamo però i servizi pubblici che premettono sostanzialmente a tutti, al di là del reddito e del patrimonio, di usufruire di assistenza medica e di accedere alla scuola ad esempio. E’ l’intervento dello Stato a fare la differenza in una situazione di grande disparità. Nei Paesi scandinavi, al contrario di quel che si crede, la diseguaglianza economica è ancora più forte che da noi con molto più indebitamento da parte dei cittadini se si guarda ai patrimoni oltre che al reddito. Eppure, con uno Stato sociale solido, gli effetti sono completamente diversi rispetto a quel che vediamo negli Stati Uniti”.
Le ragioni della maggioranza
Dunque, fra la popolazione adulta, circa 45 milioni di persone, coloro che hanno le risorse per risollevarsi da un’emergenza sono relativamente pochi. Questo significa che il livello di resilienza, la capacità di un individuo di affrontare e superare un’emergenza inattesa o un periodo di difficoltà, è basso in Italia. Dobbiamo poi aggiungere il blocco dell’ascensore sociale da decenni, di media si è più poveri dei propri genitori, e una scarsa meritocrazia che ha probabilmente portato a bruciare nell’immobilità il potenziale di intere generazioni.
Secondo la Banca Mondiale in quanto a mobilità sociale siamo al 34esimo posto. Peggio di noi nel 2020 hanno fatto fra gli altri l’Ungheria (35), la Russia (39), la Serbia (41), la Cina (45), l’Ucraina (46), la Turchia (64). Meglio di noi invece è andata la Slovacchia (32), gli Stati Uniti (27), il Portogallo (24), Malta (17), la Francia (12), la Germania (11), per non parlare di Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia che sono in testa alla classifica. Paesi quest’ultimi che, guarda caso, sono anche in testa alla graduatoria dell’indagine della Ipsos, Perils of perception, fra quelli dove lo scarto fra dati di fatto e il percepito dei cittadini è minore. Lì evidentemente due più due fa ancora quattro.
Per l’Istat l’età media della popolazione italiana nel 2022 è di 46,2 anni. Chi è nato nel 1995 oggi ha 27 anni, chi ne aveva 20 adesso ne ha 47. Se includiamo anche i 25enni di allora, abbiamo la maggioranza relativa della propalazione: il 40 per cento. Individui fra i 25 e i 55 anni mediamente più poveri delle generazioni che si sono affacciate sul mondo del lavoro in precedenza. Di qui, fra gli altri sintomi, la fuga dei cervelli all’estero.
Riassumendo: stagnazione economica, ascensore sociale bloccato da anni, parte della popolazione che vive in una condizione economica difficile, maggioranza relativa dei cittadini che è cresciuta in anni di immobilità sociale, percezione delle cose che tende ad ingigantire o a sottostimare i dati di fatto, magari per cercare un capro espiatorio e giustificare la propria condizione. In un simile contesto, cosa potrebbe andare storto quando dallo smartphone si accede ai social network?
I perseguitati
La notifica arriva la mattina del 23 aprile, mentre scorriamo i vari post di Facebook. “Contenuto suggerito per te” si legge sopra uno dei primi della lista. E’ stato selezionato per noi dall’algoritmo. Si tratta di alcuni frammenti di quella che sembra essere un’intervista al musicista inglese Roger Waters, fra i fondatori dei Pink Floyd, in merito al caso di Julian Assange. Non c’è data né fonte, ma dovrebbe risalire al 2019, ai tempi dell’amministrazione Trump, ed esser stata pubblicata da Il fatto quotidiano. A proporre la sintesi di quelle considerazioni è il profilo chiamato Una semplice questione di civiltà con il quale non abbiamo alcun legame. Non lo avevamo mai sentito prima. Ha circa 42mila seguaci e il post con le frasi di Waters, lapidarie, piace: 11mila like. Anche altri pubblicano quello stesso testo ottenendo risultati simili.
Fra le altre cose si legge: “Noi viviamo negli Stati Uniti d’America dove un’enorme percentuale di persone è totalmente sopraffatta dalla propaganda, la quale è enormemente efficace ed enormemente potente. Ed è questo il motivo per cui la farsa del potere può continuare. Dunque io vivo in un Paese dove cercano di far credere alla gente che va bene che i dollari delle tasse continuino a essere riversati nelle tasche dei ricchi, con il pretesto che bisogna fare la guerra alla Cina (…). E nella Tv americana mainstream o su un giornale americano non viene ammessa una sola parola di verità. Neanche una. Tutto è sotto controllo”. Poi aggiunge: “Dov’era la stampa mainstream mentre il fratello e compagno Julian Assange, un giornalista come loro, viene assassinato? Si, assassinato. Perché è un tentato omicidio quello che stanno facendo di Julian Assange”.
La stampa ha molti limiti e inciampa sempre più spesso. Ma non in questo caso. Nel 2019 il New York Times di articoli su Assange ne ha pubblicati dieci, altrettanti il Washington Post. Sono due delle testate che hanno criticato apertamente l’accusa mossagli a maggio di quell’anno dal governo per la presunta violazione dell’Espionage Act.
Il sette febbraio del 2018 i due amministratori di Una semplice questione di civiltà, che se la prendono spesso con la stampa ‘mainstream’, pubblicano questo messaggio: “Il nuovo algoritmo Facebook sceglie per voi le notizie oscurando le pagine come questa e privilegiando i contatti personali. Il fine è quello di depotenziare la critica, la discussione e il confronto e aumentare le foto con gattini e bucatini all’amatriciana”. A quanto pare gli algoritmi devono aver cambiato idea, oppure contenuti del genere sono tutt’altro che depotenziati.
Le colpe delle fonti ufficiali
“Abbiamo una conoscenza del mondo limitata e approssimativa, che è diminuita nel tempo. Facciamo affidamento alla conoscenza degli altri, cerchie di amici con idee simili che si autoconfermano sui social (…). Il ‘pensiero di gruppo’ è così forte che quando sbaglia non cede nemmeno davanti all’evidenza. Vale per i cittadini, vale per politici e amministratori delegati”. Così lo storico israeliano Yuval Noah Harariin un’intervista del 2018.
In Italia, secondo i dati raccolti dal Cnr nel 2020, il 40 per cento delle persone dichiara che in Rete trova quel che le fonti ufficiali nasconderebbero. Questo però non significa necessariamente che quasi la metà degli italiani sia complottista. Vuol dire “solo” che la fiducia nel sistema, nelle istituzioni e nelle varie componenti dell’organizzazione della società, è a livelli minimi. In alcuni casi i demeriti delle fonti di informazione e di chi ha gestito questo Paese sono evidenti, eppure si finisce per per abbracciare rappresentazioni della realtà che di reale hanno poco. “Le crisi eleggono sempre i propri nemici, ma quasi mai sono i veri responsabili della situazione”, ha raccontato Antonio Tintori, a capo del gruppo di ricerca Mutamenti Sociali del Cnr-Irpps.
Il 3 dicembre del 2021 il Censis ha pubblicato il suo 55esimo rapporto sulla società italiana. Uno dei capitoli era intitolato La società irrazionale: “È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà. Per il 5,9 per cento degli italiani (circa 3 milioni di persone) il Covid semplicemente non esiste. Per il 10,9 il vaccino è inutile e inefficace. Per il 31,4 è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. Per il 12,7 la scienza produce più danni che benefici. Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie: il 19,9 per cento degli italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone. Al negazionismo storico-scientifico: il 5,8 è sicuro che la Terra sia piatta e il 10 è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna (…). L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia nelle posizioni scettiche individuali, sia nei movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei ‘trending topic’ nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive”.
Definire questo panorama come “il sonno fatuo della ragione”, come scrive il Censis, è dare per assodata l’età dei lumi, della ragione. Eppure non c’è davvero molto di nuovo in quel che vediamo manifestarsi online, che è uno specchio dell’emotività umana. Cambia però la magnitudine, amplificata a dismisura. Qualcuno lo aveva iniziato a capire proprio negli anni Novanta, quando l’Italia cominciava a fermarsi e a sprecare sogni, ambizioni e potenzialità di intere generazioni.
La storia è sempre complessa
Jonah Peretti, l’architetto della prima versione dell’Huffington Post e fondatore di BuzzFeed, dopo la specializzazione al Media Lab del Mit di Boston aveva dato vita a una serie di esperimenti virali privi di scopo se non quello di studiare come certi fenomeni si diffondevano sul Web. In uno, ad esempio, con la sorella era riuscito a mettere in piedi “la linea telefonica del respingimento” per arginare i corteggiatori indesiderati. Bastava dar loro quel numero e un messaggio registrato recitava: “La persona che le ha dato questo numero non vuole parlarle né rivederla. Cogliamo l’occasione per respingerla ufficialmente”. Le otto linee messe a disposizione dal servizio rimasero intasate per mesi tanto l’operazione aveva avuto successo grazie al passaparola su Internet.
Già nel 1996 Peretti aveva scritto in un articolo che “il ritmo sempre più rapido con il quale le immagini vengono diffuse e fruite online (…) determina un corrispondente aumento del ritmo con cui gli individui assumono e si spogliano delle loro identità”. Incollati allo schermo, si scambiano immagini ideologicamente cariche con sé stessi in gioco di specchi. Peretti parlava di immagini perché in quel periodo erano loro la parte virale di Internet, ma possiamo probabilmente estendere il concetto ai contenuti in generale pubblicati sul Web. Oggi però più che spogliarsi della propria identità sembra che ogni tema sul tavolo venga usato per affermarla.
Nel 2006, anno di nascita di BuzzFeed, la quantità di dati prodotti fu tre miliardi di volte superiore a quella contenuta in tutti i libri mai scritti. L‘agenzia stampa Associated Press parlò di “affaticamento da notizie” e di lettori “debilitati” dal “sovraccarico di informazioni”.
Jill Abramson, prima donna a dirigere il New York Times, nel saggio appena uscito in Italia intitolato Mercanti di verità (Sellerio), racconta di come fra i primi post di BuzzFeed c’era una lista dei migliori siti che trattavano il tema dei pinguini gay, la linea di abbagliamento per animali di Snoop Dogg e venti capezzoli di celebrità in mostra. Abramson non ne scrive per condannare quelle scelte, solo per spiegare che essendo la viralità l’obiettivo, finivano sullo stesso piano notizie importanti e articoli che lo erano molto meno. Il Web veniva descritto, anche dai colossi della Silicon Valley, come la grande miniera di informazioni, il catalogo dello scibile umano, con una retorica di fondo di stampo illuminista. Peretti al contrario lo vedeva come un catalogo emotivo. Per questo i contenuti di BuzzFeed non erano ordinati in base alle categorie tipiche dei giornali, dall’economia alla politica, ma “attorno alle emozioni che spingono alla condivisione”, aveva spiegato lo stesso Peretti: Lol, Wtf, Fail, Trashy e via discorrendo. Dunque, in base alla reazione che quegli articoli provocavano o si pensava avrebbero provocato.
Cosa è accaduto nel 2009
Che il cosiddetto “engagement”, il coinvolgimento degli utenti, sia uno dei tasselli fondamentali sui quali è costruito il castello dei social network lo sappiamo tutti. Peccato che poi lo dimentichiamo al primo post che ci fa arrabbiare. Senza spingersi fino alle tesi estreme di documentari come The Social Dilemmapubblicato da Netflix, o quelle del saggio Il capitalismo della sorveglianza(Luiss) di Shoshana Zuboff della Harvard Business School, è ormai assodato che l’emotività su queste piattaforme è l’arma più sfruttata per tenere attaccati allo schermo le persone, in una competizione sempre più aspra per la conquista del loro tempo. Con l’aggiunta del fattore “like”, che funziona come la ricompensa nel gioco d’azzardo.
“Prima del 2009, Facebook aveva dato agli utenti un flusso infinito di contenuti generati da amici e contatti, con i post più recenti in alto e quelli più vecchi in basso. Una quantità travolgente di messaggi, ma era comunque un riflesso fedele di ciò che gli altri stavano pubblicando”, scrive su The Atlantic Jonathan Haidt, psicologo sociale che insegna alla New York University e autore di due saggi, The Righteous Mind e The Coddling of the American Mind. Il titolo del suo intervento è: Perché gli ultimi 10 anni di vita americana sono stati straordinariamente stupidi. “Tutto comincia a cambiare nel 2009, quando Facebook ha aggiunto il tasto ‘Like’, “mi piace”. Nello stesso anno, Twitter ha introdotto qualcosa di ancora più potente: il ‘Retweet’, che ha permesso agli utenti di approvare pubblicamente un post condividendolo (…). Facebook ha presto copiato quell’innovazione con il proprio pulsante ‘Condividi’, che è diventato disponibile nel 2012. I pulsanti ‘mi piace’ e ‘condividi’ sono diventati rapidamente funzionalità standard della maggior parte delle altre piattaforme”.
Facebook ha iniziato così a raccogliere dati su ciò che coinvolgeva (engaged) i suoi utenti e ha sviluppato algoritmi per portare a ciascuno il contenuto che con più probabilità avrebbe generato un “mi piace” o qualche altra interazione, includendo eventualmente anche la “condivisione”.
“Somigliano ai sistemi di raccomandazioni in un servizio di streaming o di commercio elettronico” aveva spiegato pochi mesi fa Walter Quattrociocchi, a capo del Center of Data Science and Complexity for Society dove lavora Cinelli, fra i primi a studiare il fenomeno e misurarne la portata. “Ti viene consigliato quel che utenti a te simili, nel caso di Facebook soprattutto i tuoi contatti, hanno apprezzato. Di conseguenza viene eliminata la varietà per darti quel che si suppone ti piacerà di più aumentando il tempo che spendi sulla piattaforma. Il problema è che così facendo si creano queste ‘camere di eco’ all’interno delle quali i pareri sono similissimi fra loro. E qui sono le posizioni più estreme ad esser messe in risalto perché sono quelle che provocano più reazioni, uno dei parametri tenuti in maggior conto dall’algoritmo, in un crescendo continuo”. Il caso delle affermazioni di Roger Waters ad esempio.
Ev Williams, fondatore di Medium e di Twitter, assieme a Jack Dorsey, Noah Glass e Biz Stone, su questo tema nel 2018 aveva messo in chiaro alcune cose: “Il cosiddetto ‘engagement’, la capacità di un contenuto di creare un legame con le persone, quando funziona viene immediatamente replicato da una piattaforma all’altra per generare click e profitti. Disgraziatamente non sappiamo misurare se una certa cosa fa star male o fa star bene, né se è vera o falsa, solo se provoca una reazione”.
Se ne erano accorti, prima delle elezioni presidenziali americane del 2016, i collaboratori di Donald Trump. Il gruppo che si occupava dei social network si era dato il nome di Progetto Alamo ed era guidato da Brad Parscale, poi defenestrato alle ultime elezioni, in collaborazione con Alexander Nix, a capo di Cambridge Analityca. Il primo ha gestito gli 85 milioni di dollari spesi su Facebook, il secondo ha poi ricevuto un compenso 6,2 milioni di dollari per il suo sistema “psicometrico”: individuare gruppi di persone sensibili a certe tematiche o spaventati da determinati fenomeni, dall’immigrazione al tasso di criminalità, ai quali inviare messaggi su misura. “Senza Facebook non avremmo mai vinto”, disse ai microfoni della Bbc il braccio destro di Parscale, Theresa Hong, nel documentario Secrets of Silicon Valley. E lo sanno bene anche nella cosiddetta ‘fabbrica dei troll’, l’Internet Research Agency (Ira) di San Pietroburgo, messa in piedi da Evgenij Prigozhin, chiamato il cuoco di Putin, che però ha sempre negato ogni coinvolgimento.
L’accademico inconsapevole
“Mi piacerebbe avere le tue stesse certezze”, commenta il fisico rispondendo ad una persona che sta contestando con una discreta varietà di fonti le sue tesi geopolitiche. Il fisico quelle tesi le pubblica su Facebook sostenute immancabilmente da un articolo o da un intervento di qualcun altro sempre perfettamente aderente alle sue idee, replicando un copione consumato: cercare su Internet tutto quel che conferma i nostri pregiudizi, intesi in senso letterale, ovvero giudizi formati a priori, che nella manifestazione di sé stessi sui social network si trasforma nell’ignorare il metro altrui anche quando si dimostra valido.
Colpisce che perfino gli scienziati siano finiti in questo gioco. Loro di metri per avere un’idea della validità di certi studi e dello spessore dei ricercatori li hanno: il numero delle pubblicazioni e quello delle citazioni nei lavori dei colleghi, che danno la misura dell’impatto sulla comunità scientifica. Tutto consultabile da chiunque, giornalisti inclusi, sul motore di ricerca Google Scholar. La metrica più importante forse è la seconda, visto che nella prima bisogna poi verificare la statura delle testate che hanno pubblicato le varie ricerche e non sempre è rilevante. Il risultato complessivo è un metodo accettabile per dare una gerarchia, per conoscere l’autorevolezza di scienziati e singoli articoli accademici rispetto a certe materie.
Tornando al fisico, che conta nel complesso su più di tremila citazioni, è probabile che se sui suoi temi intervenisse qualcun altro che non ha studiato altrettanto la materia si irriterebbe. A ragione. Eppure, in questioni di politica internazionale tira in ballo Alessandro Orsini, sociologo con all’attivo volumi su terrorismo e poco più di quattrocento citazioni. Un decimo delle sue. Non stiamo qui trattando della validità delle tesi di Orsini, solo che dovendo scegliere un esperto di Russia ed est Europa, non è il primo che dovrebbe venire in mente. A meno che non si prenda la sua voce come una bandiera dietro la quale schierarsi. Al centro della narrativa di Orsini, fra le altre cose, c’è la presunta sconfitta e ipocrisia dell’Occidente. Se si è cresciuti in un Paese fermo socialmente e che a differenza del resto dell’Occidente si è impoverito, dunque se si ha la sensazione o la certezza di non aver combinato molto nella vita e non per i propri demeriti, ascoltare qualcuno che ne predica la sconfitta aiuta a giustificare la propria. E’ solo uno dei motivi possibili e probabilmente vale per alcuni e non per altri. Ma è altrettanto vero che la guerra in Ucraina da noi ha dato vita online a uno scontro nel quale c’è molto più l’Italia che l’Ucraina stessa.
La conta degli arrabbiati
Le camere di eco sono in continua evoluzione. L’invasione russa ha spaccato quelle costituite in precedenza su altri temi, i vaccini ad esempio, con una minoranza che via via ha iniziato a questionare sulle presunte vere origini del conflitto e una maggioranza invece costernata dall’aggressione delle forze militari del Cremlino. Ondate settimanali o giornaliere di commenti legati ai singoli eventi hanno funzionato come specchi sui quali contrapporsi perdendo il contatto con quello che avviene a Kiev o più semplicemente ignorandolo se non compatibile con le proprie idee. In una inconsapevolezza generalizzata del mezzo che si sta usando per esprimersi e di quel che sta accadendo oltre i nostri confini.
Con la pandemia e i vaccini, l’invasione dell’Ucraina vista dall’Italia condivide la divisione a grandi linee fra chi è contro il sistema e chi è a favore. Il passaggio dei No Vax più radicali dalla parte di Putin è avvenuto quasi immediatamente e dopo di loro si sono uniti altri. Cambiano i temi ma non l’identità di fondo. Per questo il fact-checking, la verifica della singola notizia condivisa usata come un’arma per convalidare una o l’altra tesi, non è efficace. Combatte i sintomi senza guardare alla causa.
Nel caso dei vaccini, i veri No Vax sono meno dell’uno per cento, per quanto molto rumorosi sui social. C’è poi un 15 per cento della popolazione che ha o aveva dei dubbi, dei timori di vario genere sui possibili effetti collaterali. Ma si è avuta la percezione che i No Vax fossero più numerosi sia per la loro attività online sia per lo spazio che i media gli hanno dato. Sta accadendo qualcosa di vagamente simile anche con la guerra in Ucraina, benché qui le proporzioni siano differenti. Ricordate la ricerca del Cnr del 2020? Affermava che il 40 per cento degli intervistati crede che in Rete si trovi quel che le fonti ufficiali nasconderebbero. Secondo un’indagine Demos del 19 aprile, il 46 per cento della popolazione da noi è convinta che l’informazione sulla guerra in Ucraina sia pilotata e distorta.
La società plasmata ad immagine di un social network
“E’ una tempesta perfetta per quel che ci riguarda”, conclude Matteo Cinelli. “E ormai le logiche dei social media stanno dilagando nell’intera società grazie alle sue fragilità. Tutti parlano di tutto, senza più alcuna distinzione per le competenze. Sta accadendo anche in ambito accademico. Il principio di autorevolezza sta saltando un po’ ovunque. In tv o sui giornali intervengono persone che non hanno alcun titolo per trattare un certo argomento. L’importante è che facciano discutere, creando ‘engagement’ e si guarda ai social per scovare le figure più divisive”. Da questo punto di vista il virologo Roberto Burioni e il sociologo Alessandro Orsini si somigliano, con la differenza che il primo ha un profilo scientificamente più rilevante rispetto al tema dei vaccini di quanto lo abbia il secondo per commentare la situazione geopolitica russa e ucraina.
Meno e meglio
In attesa di avere l’indice di tossicità delle piattaforme online al quale Cinelli sta lavorando, bisognerebbe fare molta più attenzione quando si pubblica qualcosa sui social network. Chiedersi ogni volta si commenta, risponde o si mette un like, perché lo stiamo facendo, a cosa stiamo reagendo. Bisognerebbe esprimersi meno e farlo con più consapevolezza. Peccato che la consapevolezza sia una merce rara ed è anche difficile da raggiungere. Il bonus per l’assistenza psicologica forse aiuterebbe se concesso all’intera popolazione e non è affatto una battuta sarcastica.
L’alternativa è quella di chiudere quei social network che prosperano sulle nostre peggiori emozioni, ipotesi che forse andrebbe presa in considerazione, o migliorare le condizioni di vita delle persone sapendo che a quel punto la frustrazione verrebbe meno, almeno in parte. E ancora dare un senso alla parola ‘merito’. Una strada lunga e complessa, ma ovviamente l’unica che offre garanzie. Con l’aggiunta di investimenti sulla scuola più lungimiranti rispetto a quanto fatto fino ad oggi. Ammesso sempre che si continui a pensare che in un Paese sano due più due debba fare quattro e non “Hitler”, “nazi” o cinque, come nel regime totalitario descritto in 1984 di George Orwell.
Un epilogo casuale
Una domenica di aprile capitiamo per caso in un bar di Sacrofano, a nord di Roma. Ad un tavolo Francesca Braghetta, insegnante del nido, sta raccontando ad un’amica cosa la spaventa delle discussioni online. Usa un’analogia: “Quando i bambini iniziano a parlare c’è una fase di scontri continui. Se uno dice ‘mia mamma’ l’altro crede stia parlando di sua mamma, non sapendo che di mamme ce ne sono una per ogni bambino, e allora risponde arrabbiato ‘mia mamma!’. A sua volta il primo, ancora più alterato, gli urla ‘mia mamma!’ e vanno avanti così fino alle lacrime. Non lo so… mi sembra che online vediamo la stessa dinamica”. Un po’ tranchant come paragone, ma a suo modo suggestivo.
Perché opinioni innocue condivise inizialmente con un pubblico ristretto e complice provocano spesso reazioni sproporzionate e polarizzanti sulle piattaforme?
(Sascha Schuermann/Getty Images)
Ad aprile scorso, la giornalista del Guardian Elle Hunt stava conversando con amici in un pub a proposito di film e di generi cinematografici. Decise di riportare su Twitter, attraverso il suo account, una questione emersa durante quella conversazione spensierata e propose un sondaggio: se il film Alien potesse essere considerato un horror. Rispondendo a un utente, espose la sua concisa posizione – «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio» – e, dopo aver letto alcune obiezioni, mise da parte lo smartphone.
Il giorno dopo, Hunt trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati con lei, e altre di suoi amici preoccupati. Scoprì che il sondaggio aveva ricevuto 120 mila voti e che la sua opinione era stata citata da migliaia di persone, tra cui il regista Kevin Smith, che se la prendevano con lei per la sua affermazione sui film horror. Molti le chiedevano di scusarsi con diversi registi famosi. La ragione di tante attenzioni, scoprì Hunt, un’utente verificata ma con poche migliaia di follower, era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” – la sezione di Twitter con le notizie più discusse – negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
La spiacevole esperienza di Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico molto più ristretto. Negli ultimi anni, alcune riflessioni intorno ai social media hanno descritto in termini sociologici questa circostanza – tipica di molte piattaforme social – come “collasso del contesto”, l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in unico spazio.
«Prendere pubblici diversi, con norme, principi e livelli di conoscenza diversi, e radunarli tutti in un unico spazio digitale per farli coesistere porta prevedibilmente a conflitti regolari e potrebbe, su scala nazionale, persino renderci più radicalizzati», ha scritto recentemente su The Verge il giornalista Casey Newton, riferendosi in particolare a Twitter. Il risultato più probabile, scrive Newton, è che un individuo con un seguito moderatamente ampio, a prescindere dal contenuto delle sue affermazioni, venga inevitabilmente frainteso da «persone apparentemente determinate a fraintenderlo».
Il concetto di “collasso del contesto” deriva da nozioni tratte dalle teorie formulate nella seconda metà del Novecento dal famoso e influente sociologo americano Erving Goffman a proposito delle strutture e delle dinamiche delle interazioni sociali. Goffman si occupò di come gli individui in un gruppo adattino la loro comprensione e definizione del contesto sociale in base alle diverse situazioni. In genere, le definizioni dei vari individui tendono a essere in armonia tra loro in modo che sia possibile stabilire un consenso operativo ed evitare situazioni di imbarazzo o conflitti.
Goffman utilizzò la metafora della recitazione e parlò di «performance» per definire le azioni compiute da un individuo quando – in un gruppo di altre persone che fanno sia da pubblico («audience») che da “attori” a loro volta – cerca di determinare e controllare la rappresentazione di sé che propone agli altri. E normalmente quell’individuo distingue i diversi tipi di pubblico in modo da decidere di volta in volta le azioni più appropriate da compiere a seconda delle diverse situazioni sociali.
Mentre queste operazioni risultano relativamente semplici e automatiche nel caso delle interazioni di gruppo faccia a faccia, l’adattamento delle performance nei contesti online è complicata dalla compressione e dall’appiattimento di più tipi di pubblico in un unico contesto. Basandosi sul lavoro di Goffman e di altri sociologi, alcuni studiosi come l’antropologo Michael Wesch e l’etnografa e teorica dei social media Danah Boyd hanno sostenuto che le piattaforme dei social hanno reso più sfumati e indefiniti i confini tra i gruppi sociali di riferimento, gruppi che per lungo tempo avevano modellato le relazioni personali e le identità degli individui.
L’avvento dei social media ha contribuito significativamente a ridefinire Internet come uno spazio in larga parte sovrapposto al mondo reale, uno spazio profondamente diverso rispetto a quello in cui, in precedenza, le persone potevano cambiare genere, età o personalità attraverso identità virtuali rappresentate da pseudonimi e avatar.
Sui social network, gli individui hanno invece accolto una definizione di contesto che ammettesse la possibilità che una singola rappresentazione di sé, per utilizzare i termini di Goffman, potesse essere proposta ad amici, colleghi, genitori, insegnanti e altri gruppi eterogenei. «I giorni in cui potrai dare un’immagine di te differente agli amici, ai colleghi di lavoro e alle altre persone che conosci finiranno probabilmente in breve tempo», disse il CEO e fondatore di Facebook Mark Zuckerberg nel 2010, descrivendo come una «mancanza di integrità» la scelta di avere più identità.
Sebbene negli spazi virtuali trovi applicazioni e sviluppi specifici e complessi, il collasso del contesto non è un fenomeno presente esclusivamente su Internet. Secondo Natalie Pennington, docente di comunicazione all’Università del Nevada, i matrimoni sono un esempio tipico di collasso del contesto offline. «Hai lì la tua famiglia, i tuoi colleghi e i tuoi vecchi amici, e può essere difficile sapere come comportarsi e come comunicare», ha detto Pennington, sottolineando la differenza principale rispetto all’esperienza del collasso del contesto online: che il matrimonio, a un certo punto, finisce.
L’impossibilità di presentare sui social media versioni di sé stessi orientate a un pubblico diversificato, secondo l’antropologo Michael Wesch, uno dei primi teorici del collasso del contesto, ha determinato una specie di crisi di identità dell’individuo. «Il problema non è la mancanza di contesto. È il collasso del contesto: un numero infinito di contesti che collassano l’uno sull’altro in quel singolo attimo della registrazione. Le immagini, le azioni e le parole riprese dall’obiettivo possono in qualsiasi momento essere trasportate in qualsiasi parte del pianeta e conservate per sempre», scrisse Wesch nel 2009 descrivendo uno dei possibili utilizzi di YouTube.
In tempi più recenti, come ha osservato lo scrittore americano Nicholas Carr, è emersa tra gli utenti dei social network una tendenza a ripristinare i diversi contesti. Questa attitudine ha accresciuto la popolarità di nuove piattaforme come Snapchat – in cui i messaggi scompaiono rapidamente – ed esteso l’abitudine di rendere privati gli account o di limitare il proprio pubblico organizzando e delimitando i diversi gruppi in «cerchie», attraverso gli strumenti progressivamente introdotti da diversi social network.
In un’analisi in cui riprende la vicenda della giornalista del Guardian Elle Hunt, il giornalista Charlie Warzel si è chiesto insieme alla stessa Hunt quanto il collasso del contesto sui social media debba essere inteso come un fenomeno problematico e dagli effetti imprevisti, o quanto sia invece da ritenere una caratteristica specifica delle piattaforme e una prerogativa del loro modello di business. Nel caso di Hunt, scrive Warzel, mostrando quel tweet negli argomenti “di tendenza” Twitter «ha preso un’opinione insignificante di un’utente verificata e l’ha presentata a milioni di persone come fosse una sorta di evento significativo per la cultura pop».
È proprio l’obiettivo di quella controversa sezione di Twitter, spiega Warzel, invitare gli altri utenti a partecipare a una conversazione. Ma è abbastanza ininfluente, in questo senso, quali siano le premesse – il contesto, appunto – da cui partiva l’autore del tweet prima di formulare quella specifica opinione, che viene poi amplificata dalla piattaforma e utilizzata da altri come possibilità di esporre altri aspetti della discussione che hanno interesse a far emergere. «La scelta di mettermi in tendenza ha avuto l’effetto di presentarmi come una figura pubblica in un modo che avrebbe potuto soltanto incoraggiare le offese», ha detto Hunt.
Warzel sottolinea che quanto capitato a Hunt è certamente non grave, se confrontato con casi di offese e molestie espresse sui social network e in grado di rovinare la vita delle persone. Ma è proprio il fatto che sia un caso abbastanza familiare e non eccezionale, a renderlo particolarmente significativo: «un perfetto esempio delle dinamiche dei nostri social media rotti, che sembrano sempre più progettati per disumanizzarci, polarizzarci e renderci tutti infelici».
Warzel e Hunt ritengono che, sotto questo aspetto, le frequenti espressioni di intransigenza e intolleranza presenti su Twitter siano meno da inquadrare come una manifestazione della cosiddetta cancel culture e più come un esempio di «fallimento della piattaforma». Il caso di Hunt è stato colto dagli appassionati di cinema e dai fan dell’horror e della fantascienza come un’opportunità per far pesare le loro opinioni e affermare le loro particolari identità.
Quando il “personaggio del giorno”, spiega Warzel, diventa oggetto di attenzioni da parte del pubblico disparato della piattaforma («troll di destra, giornalisti annoiati con un enorme seguito, accademici, politici in carica»), quello che succede in termini sociologici è che «migliaia di forti identità individuali online si scontrano l’una contro l’altra», incrementando le opportunità di «crollo del contesto». Che è una caratteristica della piattaforma stessa: la capacità di cambiare contesto senza particolare attrito, rendendo le interazioni «spontanee ed eccitanti» ma anche, in altri casi, profondamente spiacevoli.
Se è un problema, spiega Warzel, si tratta di un problema evidentemente irrisolto e noto ai responsabili delle piattaforme, che per anni hanno lasciato che gli argomenti di tendenza «si trasformassero in un pozzo nero di disinformazione» e che troll e teorici delle cospirazioni «iniettassero idee pericolose nel mainstream». Warzel sostiene che, nonostante la progressiva introduzione di strumenti pensati per limitare offese e abusi, Twitter non sia stata in grado di risolvere quello che accade quando gli utenti riescono a «sfondare» e ad accedere a enormi bacini di attenzione.
«Sembra che l’azienda non si renda ancora conto che una delle peggiori esperienze possibili su Twitter sia effettivamente quella di vincere la lotteria e diventare virale», conclude Warzel.
I documenti interni a Facebook diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen, amplificano e raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza di Facebook nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma, a volte per carenza di mezzi tecnici, a volte per non danneggiare i profitti che derivano dall’attività delle persone sulla piattaforma.
Former Facebook employee Frances Haugen testifies during a Senate Committee on Commerce, Science, and Transportation hearing entitled ‘Protecting Kids Online: Testimony from a Facebook Whistleblower’ on Capitol Hill in Washington, DC, USA, 05 October 2021 . Haugen left Facebook in May 2020 and provided internal company documents about Facebook to journalists and others, alleging that Facebook consistently chooses profit over safety. EPA/Drew Angerer / POOL
Gli articoli usciti lunedì sono decine (il sito di cose tecnologiche Protocolli ha elencati tutti) e sono basati sugli stessi documenti che il Wall Street Journal aveva usato per la sua ampia inchiesta su Facebook, chiamata “Facebook Files” e uscita a puntate tra metà settembre e l’inizio di ottobre.
Haugen, inizialmente, aveva dato accesso esclusivo ai documenti ai giornalisti del Wall Street Journal, ma in seguito ha deciso di consegnare i documenti ad altre testate, che hanno formato una specie di consorzio e hanno accettato di cominciare a pubblicare i loro articoli tutti assieme lunedì mattina (benché alcuni abbiano violato l’accordo, chiamato embargo, e abbiano cominciato a pubblicare venerdì sera).
Il Wall Street Journal, dunque, ha avuto la precedenza sulla consultazione dei documenti e sulla pubblicazione di articoli basati sui leak (le informazioni trapelate), mentre il consorzio degli altri giornali ha avuto la possibilità di accedervi soltanto dopo. La mole dei documenti di Haugen, tuttavia, è così ampia che i giornali coinvolti hanno comunque pubblicato numerosi approfondimenti e dettagli. Hanno fatto parte del consorzio 17 giornali americani, tra cui il New York Times, il Washington Post e riviste come l’Atlantic, più alcuni giornali europei, come il Financial Times e LeMonde.
I giornalisti del consorzio hanno anche deciso di cambiare nome alla massa di documenti, e dunque anche all’inchiesta: mentre il Wall Street Journal aveva parlato di “Facebook Files”, i giornali che hanno pubblicato lunedì hanno parlato quasi tutti di “Facebook Papers”, anche se si tratta grossomodo degli stessi documenti. Non è del tutto chiaro in realtà se i documenti siano esattamente gli stessi, ma comunque lo è la gran parte.
I documenti affidati al consorzio da Haugen sono gli stessi consegnati a una commissione del Congresso americano, e alcuni elementi, come per esempio i nomi dei dipendenti di Facebook, sono stati omessi.
Poiché sono basati sugli stessi materiali, nel loro complesso gli articoli sui “Facebook Papers” ricalcano i temi già trattati dal Wall Street Journal nella sua inchiesta sui “Facebook Files” e descritti da Haugen sia nelle sue apparizioni televisive sia nella sua nota deposizione al Congresso, all’inizio di ottobre: mostrano come la dirigenza di Facebook abbia spesso messo il profitto e la ricerca dell’engagement (cioè il coinvolgimento degli utenti) davanti alla sicurezza e al benessere degli utenti.
Tra le inchieste del Wall Street Journal, per esempio, una delle più rilevanti mostrava come Facebook, nonostante avesse ricevuto un rapporto sui disagi psicologici provocati sugli adolescenti da Instagram (social network di proprietà di Facebook), non avesse preso nessuna iniziativa per risolvere il problema.
Uno dei principali nuovi aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti (dove nel 2020 l’azienda ha impiegato l’87 per cento del suo budget per la creazione di un algoritmo di riconoscimento della disinformazione) e da pochi altri paesi occidentali che considera importanti per il suo business.
Come ha scritto il New York Times, le cose sono enormemente complicate in paesi che Facebook considera centrali, come l’India, dove il social network ha 340 milioni di utenti e dove si parlano 22 lingue riconosciute ufficialmente, più vari dialetti. I documenti di Haugen mostrano che «Facebook non aveva abbastanza risorse in India e non era in grado di gestire i problemi che lui stesso aveva introdotto nel paese, come la proliferazione di post contro i musulmani».
Su The Verge, si racconta che in Etiopia Facebook non ha quasi nessuna risorsa per contrastare il diffondersi della disinformazione, benché nel paese il social network abbia milioni di utenti e un ruolo rilevante nella vita pubblica. Altri esempi riguardano l’Afghanistan, dove Facebook ha 5 milioni di utenti e anche le pagine per denunciare l’incitamento all’odio sono tradotte male.
Il Washington Postsi è concentrato invece su alcuni documenti che riguardano l’attacco al Congresso americano dello scorso 6 gennaio, e racconta come nei mesi precedenti all’insurrezione ci fossero state alcune avvisaglie della possibilità che il malcontento organizzato su Facebook potesse trasformarsi in un’azione violenta, ma furono in gran parte ignorate.
Sono citate anche diverse ricerche interne a Facebook, che mostrano come i meccanismi di funzionamento del social network siano funzionali alla diffusione della disinformazione e dell’incitamento all’odio, e di come dentro a Facebook molti dipendenti e dirigenti ne siano consapevoli: in un rapporto del 2019, un ricercatore scriveva che «ci sono forti prove che le meccaniche fondamentali del prodotto siano una parte importante della ragione per cui questo tipo di discorsi [di disinformazione e incitamento all’odio] prolifera sulla piattaforma».
In generale, i documenti di Haugen contengono moltissime discussioni avvenute dentro a Facebook, e mostrano come i dipendenti siano stanchi e sopraffatti dal proliferare di disinformazione e incitamento all’odio: «Con tutto il rispetto, non abbiamo avuto abbastanza tempo ormai per capire come gestire la piattaforma senza amplificare la violenza?», scriveva un dipendente di Facebook dopo l’assalto al Congresso, in risposta al messaggio di un dirigente. «Abbiamo alimentato questo fuoco per molto tempo e non dovremmo sorprenderci se adesso è fuori controllo».
Facebook ha contestato e smentito le ricostruzioni fatte dai giornali basandosi sui documenti di Haugen. Nei giorni scorsi ha anche tentato di screditare la sua ex dipendente, e ha sostenuto che i documenti diano un’immagine incompleta e in gran parte falsa dei processi decisionali dentro all’azienda.
C’è anche una storia di media Un altro aspetto dei “Facebook Papers” riguarda il modo in cui Haugen li ha consegnati ai giornali del consorzio. Lo ha raccontato Ben Smith, il commentatore di questioni legate ai media del New York Times, che ha descritto come Haugen, dopo aver dato i documenti da lei raccolti al Wall Street Journal, abbia deciso di condividerli anche con altri giornali. Il 7 ottobre, quando ormai l’inchiesta del Wall Street Journal si era conclusa, lei e alcuni suoi collaboratori hanno organizzato una videochiamata su Zoom con i rappresentanti di 17 testate americane, con cui si sono offerti di condividere i documenti ad alcune condizioni, tra cui quella dell’embargo sulla pubblicazione fino a lunedì 25.
Come scrive Ben Smith, i giornalisti coinvolti hanno tutti accettato le condizioni di Haugen, e questo è un segnale dello spostamento dei rapporti di forza tra i media e le loro fonti, che adesso dispongono di “mega-leak”, cioè di enormi quantità di documenti e materiale, e usano varie strategie per assicurarsi che il loro materiale sia adeguatamente diffuso. «Dapprima [Haugen] ha dato i documenti al Journal per un rilascio esclusivo. Poi ha aperto l’equivalente giornalistico di un negozio outlet, consentendo ai giornalisti di due continenti di scandagliare tutto quello che il Journal aveva lasciato indietro in cerca di gemme informative nascoste. La sua intenzione era di allargare il cerchio, ha detto».
I giornalisti delle varie testate, così, si sono trovati riuniti in un consorzio informale patrocinato da Haugen e dai suoi, e per alcune settimane hanno comunicato in una chat su Slack, il programma di chat lavorative, in quella che Alex Heath, giornalista di The Verge, ha definito «la cosa più strana di cui abbia mai fatto parte, dal punto di vista del giornalismo». Il nome della chat, scelto da Adrienne LaFrance, giornalista dell’Atlantic, era: “A quanto pare adesso siamo un consorzio”.
Il consorzio si è spezzato venerdì, quando alcuni giornalisti hanno cominciato a pubblicare i loro articoli prima della scadenza dell’embargo.
Luca Angelini (Corriere della Sera, Newsletter Rassegna Stampa, 21.04.2021)
«Stiamo facendo passi aggressivi per combattere la dannosa disinformazione sul Covid-19 in decine di lingue. Usiamo lo stesso approccio e la stessa tecnologia per rimuovere le false affermazioni sul Covid e sui vaccini in francese, spagnolo, portoghese e italiano cone lo facciamo per l’inglese» assicura Facebook. Ma, a quanto pare, anche questa puzza di fake news. Almeno se si guarda ai risultati di un rapporto appena pubblicato dall’Ong Avaaz, del quale dà notizia Mark Scott su Politico Europe. Le fandonie sulla pandemia pubblicate non in inglese in Europa hanno il doppio di possibilità di rimanere su Facebook, rispetto a quelle in inglese negli Usa, dopo essere state segnalate da chi si occupa di debunking, ossia di scovare e sbugiardare gli spacciatori di «bufale».
Campione della ricerca
Il campione della ricerca, va detto, non era molto grande: 135 post pubblicati tra il 7 dicembre 2020 e il 7 febbraio 2021 e segnalati a Facebook come falsi o fuorvianti da associazioni di fact-checking di riconosciuta autorevolezza e spesso partner della stessa Facebook. In ogni caso, si tratta di notizie fasulle (dal coinvolgimento di Bill Gates nella diffusione del virus alla presunta falsa vaccinazione della vicepresidente Usa Kamala Harris, passando per una serie di menzogne assortite su vaccini e mascherine) che hanno spesso avuto milioni di interazioni.
La percentuale di notizie «incriminate» rimaste online senza che Facebook prendesse provvedimenti è risultata del 29% per quelle pubblicate in inglese (negli Usa, nel Regno Unito e in Irlanda). Ma quella percentuale sale al 33% in Spagna, al 50% in Portogallo, al 58% in Francia e addirittura al 69% in Italia (non ci sono dati su altri Paesi Ue). A dire il vero, anche per quelle in inglese c’è una bella differenza fra quelle uscite negli Usa (26% di non intervento) e in Irlanda e Regno Unito (50%). E se si fa una media di tutte quelle in lingue non anglosassoni si arriva al 56%. Il che, come si diceva, significa una possibilità più che doppia di rimanere indisturbate su Facebook.
Il rapporto segnala, peraltro, altre falle nella capacità di Facebook di arginare l’«infodemia» sul virus. Il tempo medio passato tra la pubblicazione di una fake news e la sua rimozione è stato di 28 giorni (24 per quelli in lingua inglese, 30 per gli altri). È vero che Facebook deve avere il tempo di valutare le segnalazioni dei fact-checker, ma questi ultimi hanno mediamente lanciato l’allerta 9 giorni dopo la pubblicazione. E, ancora, il social di Mark Zuckerberg non sembra avere ancora trovato le armi per vincere la “guerra dei cloni”, ossia ai post quasi identici – foto comprese – a quelli rimossi, o magari semplicemente tradotti in un’altra lingua.
Conclusioni
Le conclusioni del rapporto sono senza sconti: «L’autoregolamentazione dei social media ha fallito in quello che è stato sinora il suo più grande test: questo rapporto dimostra che, un anno dopo l’inizio della pandemia di Covid-19, nonostante un certo numero di passi raccomandabili per combattere l’infodemia in corso, Facebook non è riuscita a migliorare la sua capacità di individuare disinformazione dannosa sul Covid sulla sua piattaforma». L’azienda di Zuckerberg ha replicato di aver rimosso milioni di post sul virus e anche sulle teorie complottiste. Secondo Avaaz, vista anche la sproporzione negli interventi nei Paesi non anglofoni, è l’Unione europea a dover intervenire. Ad esempio, rivedendo le norme del suo Codice contro la disinformazione.
Una revisione che, per Avaaz, dovrebbe comprendere almeno tre interventi: 1) Oltre a migliorare rapidità e quantità di interventi contro le fake news, Facebook dovrebbe fornire informazioni corrette retroattive agli utenti che hanno visto post con false notizie. 2) “Disintossicare” l’algoritmo di Facebook, che spesso è il primo responsabile della diffusione di notizie false, perché sono quelle che provocano più engagement e quindi più attrazione potenziale per gli inserzionisti. 3) Obbligare l’azienda di Zuckerberg a dare un resoconto di quanto grande sia la massa di disinformazione che circola sulla sua piattaforma. «Dobbiamo iniziare a trattare la disinformazione come trattiamo la Co2. Non possiamo abolirla, ma dobbiamo rendere le piattaforme responsabili della loro riduzione, nel tempo, a livelli che siano meno tossici per la società».
GERUSALEMME – A Bnei Brak gli infermieri distribuiscono vaccini e cholent, la zuppa di carne con patate che gli ultraortodossi cucinano per il giorno sacro di Shabbat. A Jaffa il camioncino piazzato dal comune offre le dosi assieme a un piatto di hummus, la crema di ceci passione e orgoglio degli arabi. A ognuno la ricetta preferita per tentare di attrarre gli indecisi, quelli che non si sono ancora presentati in uno dei centri allestiti in tutto il Paese.
Agli oltranzisti, i no-vax che si oppongono alla campagna di massa, il governo prova invece a proporre cibo per la mente. Informazioni scientifiche che devono contrastare i messaggi catastrofisti e le teorie del complotto pubblicate sui social media. Una lista di fake news in disordine sparso: con il liquido vengono iniettati dei microchip per pedinare la gente; il farmaco può causare la morte e danneggia i feti; sarebbe tutto un esperimento per di ridurre la popolazione o usarla come cavia da laboratorio. Le notizie infondate si diffondono attraverso Facebook (che ha già cancellato migliaia di post su richiesta del ministero della Giustizia israeliana) e soprattutto Telegram «perché garantisce l’anonimato e rende quasi impossibile fermare la catena di bugie» spiega Amit Goldstein al quotidiano Haaretz.
Amit guida la squadra di 11 giovani – presto se ne aggiungeranno 7 – che è stata incaricata dal ministero della Sanità di combattere la cyberguerra contro la disinformazione. «Una guerra d’attrito», la definisce il giornale: per ogni megafono virtuale silenziato se ne accendono altri cento. Qualcuno dei ragazzi è ancora in divisa, altri l’hanno messa nell’armadio da poco. Sono stati addestrati nell’esercito a monitorare i canali usati dai terroristi o dagli Stati nemici, da tutti quegli attori che vogliono favorire il caos attraverso raid virtuali. Lavorano dall’alba alla mezzanotte in una sala tutta schermi allestita in un centro congressi dalle parti dell’aeroporto, a pochi chilometri da Tel Aviv, e si occupano di dare la caccia «a quei dati che vengono presentati come ufficiali», dice Einav Shimron, sempre ad Haaretz. «Abbiamo fatto rimuovere documenti che riportavano il timbro della Food and Drug Administration americana o della casa farmaceutica Pfizer: numeri inventati, effetti collaterali inesistenti, citazioni di scienziati stranieri sconosciuti».
Il governo israeliano si è posto l’obiettivo di vaccinare i due terzi della popolazione (esclusi i minori di 16 anni) entro la fine di marzo: l’entusiasmo delle prime settimane, con quasi 200 mila inoculati al giorno, è superato dal timore di aver raggiunto una soglia critica, i numeri calano, chi viene convocato non si presenta. I gruppi a rischio hanno ricevuto la seconda dose e la maggior parte delle persone sopra ai 50 anni la prima, tocca ai più giovani e restano da raggiungere gli scettici: le operazioni vanno a rilento nei quartieri ultraortodossi (dove alcuni rabbini condannano le vaccinazioni) e nelle cittadine arabe.
I no-vax continuano a lanciare polvere negli occhi e negli ingranaggi dell’operazione: attraverso Facebook hanno incitato a prendere finti appuntamenti e a non presentarsi per costringere gli ospedali a gettare via le fiale scongelate. Supportati anche da parlamentari come Eli Avidar di «Israele è la nostra casa» (destra) che ha ribadito il suo rifiuto sostenendo di essere in buona salute grazie a yoga e dieta vegana. Il premier Benjamin Netanyahu bolla i «non vaccinati» come i nuovi nemici e valuta sanzioni. Il governo progetta anche benefici da offrire per incentivare i cittadini: torna l’idea del patentino verde che permetta l’ingresso in cinema, teatri, palestre, ristoranti, la partecipazione a eventi pubblici solo a chi abbia ricevuto l’inoculazione.
The Atlantic è forse il più illustre mensile di news americano: c’è dal 1857, si chiamava Atlantic Monthly, poi la sua grande capacità di costruirsi un’identità online forte e prioritaria ha fatto accantonare il “monthly”, e oggi è uno dei migliori contenitori di articoli di qualità americani, tra quelli che non coprono il ciclo di news delle 24 ore e che hanno maggiori similitudini con i contenuti e gli approfondimenti dei “magazine”. Qualche anno fa la sua maggioranza è stata comprata da una società di Laurene Powell Jobs, vedova di Steve Jobs: quest’anno sono stati molto celebrati i risultati con gli abbonamenti digitali.
Wired è stata la testata più capace di rappresentare l’epoca del cambiamento tecnologico e dell’innovazione digitale da quando nacque nel 1993: oggi il campo si è affollato e quei temi sono coperti da molti, ma il brand è sempre molto amato e “cool”. È pubblicato dalla grande multinazionale editoriale Condé Nast (che ha anche Vanity Fair e il New Yorker), e ce n’è un’edizione italiana avviata nel 2009 da Riccardo Luna come direttore e che oggi è un trimestrale diretto da Federico Ferrazza che ha trovato una sua misura economica anche con un gran lavoro sugli eventi sponsorizzati.
The New Yorker è probabilmente il settimanale più ammirato del mondo – assieme all’Economist – per la sua qualità, i suoi numeri e i suoi risultati, famoso per la lunghezza avvincente e la profondità dei suoi articoli e per alcune storiche rubriche, oltre che per la scelta delle sue famose illustrazioni di copertina.
Giovedì è stato annunciato che il nuovo amministratore delegato dell’Atlantic sarà Nick Thompson, giornalista 45enne già direttore del sito del New Yorker e fino a oggi direttore di Wired.
Forse vi ricorderete il racconto dell’infermiera del South Dakota che ha raccontato di aver tenuto la mano a pazienti ridotti in fin di vita dal Covid che continuavano a negare l’esistenza del virus. Massimo Gaggi aveva già indagato, sul Corriere, «il cuore scettico dell’America». Alia E. Dastagir, su Usa Today, ha messo assieme alcuni studi che testimoniano come il dilagare drammatico della pandemia negli Stati Uniti non abbia riavvicinato, come si poteva sperare, le due metà opposte dell’America.
Jay Van Bavel, co-autore di un articolo al riguardo pubblicato su Nature Human Behaviour, dice di essere rimasto sorpreso dal fatto che il virus, con il suo costo in vite umane, non abbia fatto cambiare idea di pari passo con il suo diffondersi: «Semmai è successo il contrario», ossia le posizioni si sono allontanate e fossilizzate ancor di più. Secondo Josh Clinton, politologo della Vanderbilt University, Democratici e Repubblicani, sulla pandemia, non erano tanto distanti a febbraio, quando vennero scoperti i primi casi, ma le posizioni si sono divaricate quando i politici — e i media apertamente schierati come Fox News — hanno preso il sopravvento sugli esperti di sanità.
La parte forse più interessante dell’articolo è quella sul probabile motivo per cui i fatti non facciano cambiare le opinioni. Ed ha a che fare, secondo Shana Gadarian, psicologa politica alla Syracuse University, con la ricerca e affermazione della propria identità (che, ci permettiamo di aggiungere, diventa sempre più ossessiva in un mondo in cui siamo assediati di continuo dalle identità altrui, attraverso i social). «Gli esperti dicono che lo schierarsi con una parte (partisanship) non è soltanto un’identità politica, è anche un’identità sociale — sintetizza Dastagir —. Le visioni espresse segnalano a quale gruppo politico si appartiene. Se essere un Repubblicano oggi significa non doversi preoccupare per il Covid-19 e non indossare una mascherina, allora chi si identifica come Repubblicano sente di dover abbracciare tale posizione». Fino all’estremo di non lavarsi le mani nemmeno in casa, dove nessuno ti vede, come ha scoperto Gadarian nelle sue ricerche.
Inutile aggiungere che in Rete uno trova, oltretutto, tutte le informazioni, o disinformazioni, per corroborare la propria opinione, ossia per sentirsi dire quel che ha già deciso di volersi sentir dire. Ed ecco costruiti i «mondi paralleli» in cui gli abitanti di ciascun mondo non hanno alcun punto di contatto con chi abita gli altri.
C’è qualche via d’uscita? Una sono le regole. Come fa giustamente notare Dastagir, «se ogni Walmart (la più grande catena di supermercati degli Usa, ndr) impone che tu indossi la mascherina, non importa di che partito sei, dovrai indossarla se vuoi fare la spesa». L’altra strategia è cercare di de-politicizzare il dibattito sul coronavirus e quello, incombente, sul vaccino, per non erodere la dose minima necessaria di fiducia nelle istituzioni che è necessaria per accettare le disposizioni sanitarie (ne avevamo parlato nella rassegna del 17 novembre).
Come dice Josh Clinton: «Forse dobbiamo pensare non in termini di “immunità di gregge” ma di “intelligenza di gregge”. Se riuscissimo ad avere abbastanza gente che la pensi allo stesso modo e lavori insieme come americani, allora forse potremo uscire dal tunnel e tornare a vedere la luce». Joe Biden sembra averlo capito: «Non siamo in guerra tra di noi, ma contro il virus» ha detto ieri rivolgendosi agli americani. Tutti.
Ho preparato una lista di strumenti, link e suggerimenti per voi produttori di contenuti in Rete — editor, digital content producer, social media manager, blogger, eccetera— che cercate risorse online e consigli che possano semplificarvi la vita quando preparate storie e notizie per costruire un piano editoriale o una campagna, specialmente nell’ambito della comunicazione pubblica.
L’elenco nasce soprattutto dalla mia esperienza al Comune di Milano con Paola e dalla scrittura del manuale che abbiamo insieme per Apogeo, quindi ha un taglio specifico; ma si applica anche a settori diversi. Molti dei principi e degli strumenti che condivido sono interessanti anche nel lavoro con aziende, associazioni, media e agenzie e mi è capitato di usarli in contesti diversi.
Di quali risorse parlo in questo post, dunque? Di archivi fotografici gratuiti, per esempio, ma anche di strumenti grafici, app, mappe e servizi che ottimizzano la pubblicazione sui social media. Spero sia un punto di partenza utile specialmente a chi è alle prime armi, non ha molte risorse da investire in professionisti esterni o collaboratori ma deve ottimizzare l’esistente.
Buona lettura!
Il mare delle foto
Un piano editoriale — per esempio per un presidio Facebook, un blog o un canale Twitter — si nutre di un’ampia quantità di immagini, fotografie e illustrazioni.
La prima strada per ottenerle è quella di aprire un confronto con i fotografi che lavorano per o con la vostra organizzazione: spesso limitati nella loro creatività dalla litania delle foto di rito (nei contesti istituzionali: conferenza stampa, stretta di mano, ritratto vista bandiere, convegno, e via da capo), provate a coinvolgerli nel vostro lavoro quotidiano in Rete dando loro nuova prospettiva.
Da un lato recuperate i loro scatti non utilizzati, che spesso sono quelli di taglio più originale e informale, particolarmente adatti ai social media; dall’altro, concordate dei progetti specifici da sviluppare insieme, liberandoli dalle griglie in cui la formalità istituzionale potrebbe averli confinati. Con loro potete anche prendervi del tempo per spulciare l’archivio a disposizione dell’organizzazione. Recuperate quindi gli scatti con soggetti sempreverdi (simboli e divise, luoghi nominati con frequenza, dettagli, primi piani dei rappresentanti eletti o delle figure di riferimento, situazioni comuni, oggetti evocativi del servizio pubblico, panorami: vi serviranno), e scorrete molto indietro nel tempo per ritrovare le foto firmate dai loro predecessori: potrebbero diventare un contenuto speciale da condividere con il vostro pubblico.
La Pagina Facebook di A2A, azienda partecipata del Comune di Milano, condivide con i suoi follower alcune immagini d’archivio. A2A ha creato un contenuto speciale rendendo disponibili dei materiali d’epoca.
La seconda strada è quella di cercare immagini in Rete.
Esistono diversi archivi di immagini gratuite che possono fare al caso vostro. Per cominciare a orientarvi usate la maschera che Creative Commons mette a disposizione qui. Come saprete, Creative Commons promuove licenze che garantiscono un libero scambio di materiali creativi, tutelando al tempo stesso l’autore. Questa maschera vi permette di cercare su diversi siti foto con licenza CC utilizzabili gratuitamente. Vi consiglio di cercare, soprattutto, su Flickr: non solo troverete immagini di buona qualità, nonostante il servizio non sia più popolare come un tempo, ma potrete anche contattare l’autore con un messaggio diretto per chiedere conferme circa la disponibilità d’uso della foto. La tipologia di licenza dell’immagine dovrebbe già dirvi cosa è possibile farne (È modificabile o meno? È utilizzabile per attività promozionali? L’autore va citato?), ma il contatto diretto vi assicura poi il massimo spazio di manovra, avendo avuto tutte le conferme necessarie dalla diretta voce dell’interessato. Fra i portali tra cui potete avviare una search, partendo da questa maschera, c’è anche Wikimedia Commons. Si tratta del prezioso deposito collaborativo della famiglia Wikipedia, con oltre 10 milioni di file. Chiunque può scaricare e usare foto, clip audio, video e tutti gli altri file qui contenuti. Solitamente sono gli stessi autori a caricarli e metterli a disposizione del resto del mondo. La risoluzione delle immagini è molto alta. Potete ricercarle per autore, luogo, argomento e licenza. In genere possono essere riutilizzate liberamente, ma talvolta è necessario informare l’autore.
Esistono altri archivi che dovreste inserire fra i vostri “preferiti”.
Pixabay offre oltre un milione di foto gratuite: è davvero ben fatto, con materiali per uso personale e non. Tutti gli scatti sono liberi da copyright, con licenza Creative Common CC0, la più liberale, e modificabili a vostro completo piacimento. Potete filtrarli per formato, argomento, misura e persino colori. Potete cercare anche file vettoriali, illustrazioni e video. Online fin dal 1996, Morgue file è invece un portale realizzato “da creativi per creativi”, un punto di scambio per addetti ai lavori. Tutte le foto, caricate tanto da fotografi amatoriali quanto da professionisti, sono scaricabili e riutilizzabili per i vostri progetti. Viene chiesto, “quando possibile”, di citare il fotografo, e di contribuire, con i propri lavori, ad allargare questo archivio totalmente costruito dal basso. In Freepik potete trovare foto, illustrazioni, grafiche e semplici infografiche in formati diversi, inclusi i file vettoriali. Può esservi richiesto di citare l’autore, in caso non decidiate di farvi un account pro. Everystockphoto è un’altra finestra sull’universo delle foto gratuite in rete. Il sito risulta un po’ datato, ma conta quasi 30 milioni di foto gratuite indicizzate. Da tenere d’occhio sono anche Unsplash, che invita a usare gli scatti disponibili sul sito senza nessun obbligo di citare la fonte; Picjumbo, un giovane archivio in espansione, fondato nel 2013 da un designer della Repubblica Ceca; e infine Jay Mantri, che pubblica poche foto, una alla volta come in un blog, ma preziose e di alta qualità. “Foto gratuite. Usatele come volete. Fateci delle magie”, si legge sull’homepage del sito.
Molti di questi portali mettono a disposizione anche clip video gratuite: potreste trovare qualcosa che fa al caso vostro se avete bisogno di girato di copertura, magari per accompagnare un podcast o un’intervista troppo statica.
Un’altra strada per ottenere delle foto da utilizzare nel vostro piano editoriale è, naturalmente, quella di pescare fra le immagini UGC (user generated content, cioè i contenuti generati dagli utenti). Sono milioni le immagini già a disposizione sui social media, per esempio su Instagram, Pinterest, il già citato Flickr o su ambienti più di nicchia come EyeEm. Potete trovarne di adatte per accompagnare i vostri contenuti navigando fra gli hashtag a tema; è uso comune, per molti soggetti pubblici e non, in particolari quelli lavorano per la promozione turistica di un territorio, di prenderle e rilanciarle sui propri canali, citando il fotografo; prima di usarle, però, ricordatevi sempre di avere avuto il via libera dall’autore, attraverso un semplice commento o un messaggio. Quest’ultimo passaggio è particolarmente delicato se avete intenzione di utilizzare un’immagine sui presidi di una figura politica o un personaggio pubblico discusso: l’autore potrebbe non avere piacere ad essere associato al suo nome. Verificate sempre prima di pubblicare e generare una ingiustificata crisi!
Fin dalla sua bio l’account Instagram della Città di Sydney invita a realizzare foto in loco e a segnalarle con l’hashtag #ilovesydney o taggando l’account, generando così immagini che lo stesso ente potrà rilanciare.
C’è, poi, quello che potete fare voi, smartphone o macchina fotografica alla mano. Durante gli anni di lavoro al Comune di Milano io e Paola abbiamo fotografato tantissimo, dentro le mura “di palazzo” e soprattutto in giro per la città. Abbiamo strappato più di un sorriso ai nostri amici fermandoci ogni due per tre a fotografare cantieri in corso, parchi, restauri, panorami. “Potrebbero servire…”, rispondevamo alle loro occhiatacce. Spesso non erano di utilizzo immediato, ma in tanti casi sono diventate parte del nostro piano editoriale. Ci siamo così costruiti un nostro schedario di immagini. Un vantaggio strategico: significa non doversi preoccupare dei limiti imposti dal copyright, accorciando tempi e risparmiandosi qualche mal di testa. L’evoluzione tecnologica ci ha dotati di device in grado di produrre buone fotografie, con setting automatici, senza avere grandi competenze tecniche a riguardo. Ci sono però dei trucchi da tenere a mente per fare dei buoni scatti anche se non siete dei fotografi professionisti. Ecco i miei.
Prima di scattare la foto provate a immaginare come la usereste: che storia vorreste raccontare?
Usate sempre la luce naturale: scattate all’aperto, oppure vicino a una finestra, ed evitate il flash.
Assicuratevi che la luce provenga da dietro di voi che scattate, o lateralmente, non frontalmente.
Scegliete un fondo bianco o grigio se dovete poi scontornare ciò che state fotografando, per esempio per una grafica.
Se cercate uno scatto naturale siate invisibili, discreti nella vostra presenza: via dunque i suoni dallo smartphone.
Applicate la regola dei terzi attivando la griglia nel display, per avere foto corrette dal punto di vista prospettico. La regola dei terzi rende gli scatti più interessanti, dinamici e armonici.
Ci sono molte buone app per modificare le vostre foto, per post produrle o arricchirle. Le migliori a mio avviso sono Lightroom, Enlight, VSCO o PS Express.
Sul portale di didattica online Alison è disponibile un interessante corso gratuito sulla fotografia digitale. Può darvi una base per migliorare le vostre abilità e fare prove su prove per non essere impreparati quando si presenterà l’occasione di doversi mettere nelle scarpe di un fotografo. Seguitelo qui.
Ciak si gira
Quando non avete la possibilità di avvalervi di un videomaker professionista, interno o esterno alla vostra organizzazione, con lo smartphone potete realizzare da voi anche dei video: un’intervista lampo a un amministratore pubblico, un vox populi per raccogliere impressioni e commenti dai partecipanti a un evento in piazza, dei tutorial di un nuovo servizio o semplicemente una Storia per il vostro account Instagram. Non potete tirarvi indietro: grazie alla spinta data dall’algoritmo di Facebook a questo tipo di formato, alla consolidata popolarità di YouTube e al crescente successo dei contenuti istantanei, i video hanno assunto un’importanza strategica nella redazione di ogni piano editoriale.
Ho già accennato al fatto che gli archivi fotografici online spesso offrono anche clip video, magari utili per coperture di accompagnamento alla traccia principale (e anche le stesse foto possono essere utili in questo senso). Ma quando dovete girare voi del materiale da zero, a cosa prestare attenzione?
Fate clip brevi: ragionante su lunghezze come trenta secondi, un minuto o un minuto e mezzo; è vero che sta aumentando la disponibilità delle persone a guardare contenuti più lunghi, ma un video lungo privo di un montaggio particolarmente riuscito rischia di scoraggiare la visione, specie quando un contenuto viene sponsorizzato; se disponibile, fornite a chi lo desidera anche la possibilità di guardare il video nella sua versione integrale, con un link a YouTube, a Vimeo o a un sito.
Allestite un semplice set: trovate il luogo adatto dove girarlo (ben illuminato, poco rumoroso, meglio se in una cornice naturale) e fate dei test per sondare il punto migliore (attenzione alle ombre, alle zone di passaggio); potrebbe tornarvi utile avere una piccola luce a LED da applicare al vostro device, per smussare le ombre dei visi.
Attenzione all’orientamento dello schermo: per un video widescreen potete girare lo smartphone in orizzontale, ma alcuni formati (come le Storie Instagram o gli Snap) da mobile vogliono l’orientamento verticale; fate sempre una verifica prima!
Preparatevi una o due domande a video, specifiche per l’interlocutore con cui volete dialogare; se dovete girare un contenuto istantaneo preparatevi ancora meglio: non ci sarà una post produzione ed è importante avere le idee chiare dall’inizio.
Utilizzate dell’attrezzatura di supporto(piccolo treppiede, piccolo microfono, delle cuffie per ascoltare la qualità dell’audio che state registrando), magari dividendovi i compiti con un collega (in assenza di cavalletto chi gira dovrà avere mano ferma, meglio non sia chi fa le domande); se girate senza attrezzatura cercate di respirare lentamente per evitare di muovervi troppo.
Girate del materiale extra (dietro le quinte, focus su dettagli, tagli diversi del medesimo soggetto) che vi servirà per spezzare il girato principale e conferire maggiore ritmo al tutto.
La regola dei terzi vale anche per i video, specialmente quando fate delle interviste: se avete un treppiede, posizionate l’inquadratura in modo che il soggetto sia nel “terzo” destro o sinistro e poi mettetevi a fianco del treppiede, in modo che lo sguardo dell’interlocutore sia leggermente di tre quarti; l’inquadratura può anche essere totalmente frontale, ma l’effetto sarà più aggressivo e non sempre adatto a un’intervista.
Se dovete registrare un voice over con il vostro smartphone e non avete a disposizione uno studio dedicato, fatelo dentro una cabina armadio per isolarvi dai rumori ambientali, oppure di fronte a una libreria.
Inserite dei sottotitoli: spessissimo non attiviamo l’audio da mobile, per cui non inserendoli rischiate di perdere una fetta davvero importante di utenti; inoltre così facendo rendete il video accessibile anche alle persone con disabilità uditiva.
Per il montaggio affidatevi ai software disponibili nel vostro sistema operativo, come Windows Movie Maker o Movie Maker, oppure provate WeVideo, facile da usare e disponibile a prezzo contenuto.
Le dirette streaming sono diventate estremamente popolari. In ambito politico-istituzionale sono diventate sinonimo di trasparenza e oggi molte PA italiane le mettono a disposizione sul proprio sito con software dedicati, per espandere la visibilità di appuntamenti periodici come i Consigli comunali o le Commissioni. Con il lancio della possibilità di trasmettere live molto facilmente attraverso YouTube, Facebook e Instagram, le dirette vengono usate anche da personalità pubbliche, politici, associazioni, istituzioni culturali, per lanciare notizie, commentare eventi, presentare progetti. Per approfondimenti tecnici, fondamentali se dovete gestire dirette di un certo livello, vi consigliamo due letture: una è il capitolo curato da Francesco Scialacqua “Live streaming sui social media” in “Social media e PA, dalla formazione ai consigli per l’uso” (edizione 2017), pag 89, disponibile online sul sito di Formez PA; la seconda, a pagamento, è “The Live-Streaming Handbook: how to create live video for social media on your phone and desktop” di Peter Stewart, probabilmente il contributo disponibile ad oggi più approfondito e dettagliato sul tema.
I link accorciati
Le pagine interne di siti e portali — specialmente quelli delle pubbliche amministrazioni — hanno spesso indirizzi pantagruelici. Meglio accorciarli, quando volete condividere un link di questo tipo. Non è una questione solo estetica, che pure va considerata. Non è nemmeno solo un problema di lunghezza, dato che anche il più ermetico dei social network, Twitter, oggi ha un acconciatore automatico di link che si attiva quando un utente posta un link, facendogli risparmiare preziosi caratteri. Vi sono almeno altri due aspetti da tenere a mente: un URL accorciato è più facile da ricordare e appuntare e può essere adottato facilmente in tutti i prodotti di comunicazione di una campagna, online e offline, evitando la dispersione dei contatti; può, inoltre, fornire dati utili sul comportamento degli utenti, come il numero di click reali e la provenienza delle persone che si sono attivate per interagire con il link postato. Sono informazioni preziose per capire se e come una campagna funziona, sia che si tratti di contenuto organico che a pagamento.
Fra gli “URL shortener” segnalo:
tinyurl: è stato il primo servizio di questo genere, è rimasto il più grezzo e intuitivo da usare, ma non offre particolari insight o approfondimenti sul comportamento degli utenti;
bit.ly: è il più noto; permette gratuitamente di personalizzare la seconda parte dell’indirizzo; offre diversi livelli di analisi, per capire da dove le persone hanno cliccato e quale social network stavano usando al momento del click; dalla vostra pagina utente è possibile tenere traccia di tutti gli URL creati, ottenendo classifiche complessive sulla loro popolarità; dà la possibilità di comprare un dominio breve personalizzato, da sostituire al “bit.ly”, che deve essere più breve di 15 caratteri, punto incluso; attenzione: con un “+” incollato dopo l’URL che avete creato chiunque può accedere agli insight del vostro link;
goo.gl: anche l’immancabile Google mette a disposizione un servizio di questo tipo: è molto facile e veloce da usare; tutti i dati sull’utilizzo del link breve sono pubblici e rintracciabili in pochi passi;
fra quelli a pagamento segnalo Budurl, che permette, solo per i creatori del link breve, in totale riservatezza, di tracciare informazioni molto dettagliate, fra cui il browser di provenienza e la città, di chi clicca un link.
Le grafiche (quando manca un grafico)
Se avete la possibilità di creare un team ad hoc dedicato ai social media non dimenticatevi di una figura che può risolvervi più di una grana: il grafico. Quando non è disponibile, o non lo è a tempo pieno, sarà utile che impariate alcune basi del mestiere data la frequente esigenza di interventi di questo genere. Come sottolinea la sempre valida Direttiva sulla semplificazione del linguaggio delle pubbliche amministrazioni — ma può applicarsi anche ad ambiti vicini — “la grafica può contribuire a valorizzare il nucleo essenziale del messaggio, sottolineare le informazioni ineliminabili, spiegare i riferimenti impliciti (normativi, sociali, culturali)”.
Nel vostro lavoro sui social media per la comunicazione pubblica potreste dunque avere bisogno di:
realizzare delle infografiche;
creare dei layout o cornici;
costruire delle mappe.
Infografiche. Quando i contenuti sono densi e coinvolgono numeri e dati, per aumentarne leggibilità ed efficacia potete creare delle infografiche, da accompagnare a una breve didascalia. Qualche anno fa Matthew Ericson, vice responsabile del settore grafico del New York Times, ha condiviso al Festival del Giornalismo di Perugia alcuni suggerimenti per realizzarne di efficaci. Prendo spunto da quello che aveva raccontato per darvi qualche dritta.
Rappresentate il contesto: analizzate il tema da affrontare e capite come spiegarlo visivamente affinché risulti chiaro; date dei punti di riferimento, come in una raccolta d’indicazioni toponomastiche; quindi, una legenda e una cornice semantica di riferimento, ma anche delle unità di lettura dei numeri declinate secondo analogie, iperboli o similitudini, che facilitino la comprensione.
Interagite con chi legge: immaginate di costruire non solo un contenuto informativo, ma anche giocoso, empatico, che richieda una decodifica da parte del lettore; quando ci troviamo di fronte a compiti troppo facili gli diamo poca importanza o valore: attivarsi per capire e risolvere qualcosa, invece, è un’azione motivante, che segue una dinamica simile a quella a cui ci hanno abituati i videogame.
Descrivete il vostro punto di vista sui numeri: dimostrate competenza ai destinatari dell’infografica e condividete con loro la vostra interpretazione dei fatti; il succo dei dati è sempre una storia, o un insieme di storie, a cui voi avete dato voce per esprimersi.
Esplicitate sempre la fonte dei dati analizzati: rafforzate così la credibilità del prodotto e aprite la strada a eventuali approfondimenti e domande da parte di chi ne fruisce.
Infografiche si possono creare con i principali programmi di grafica, come Photoshop, Illustrator o inDesign (per una guida di Adobe Photoshop CC vi suggerisco di consultare “Photoshop CC”, di Giovanni Trezzi e Elisa Andreini, edito da Apogeo). Se le vostre esigenze sono limitate, come quando dovete creare un visual quadrato o rettangolare per accompagnare una notizia su Facebook e renderla più attrattiva, potete anche pensare a usare strumenti di composizione grafica come Keynote, per Mac: invece di creare una presentazione, create delle slide (sfruttate forme e sfondi, importate loghi e immagini scontornate) che posso essere facilmente esportate come file png (il formato migliore per questo tipo di utilizzo: non sgrana e non perde qualità una volta caricato) da caricare sul vostro presidio.
Se non avete alcuna competenza di grafica o data visualisation, ci sono alcuni tool online che possono aiutarvi. Infogram, per esempio: su questo sito, disponibile gratuitamente con servizi limitati (potete creare una vostra library di contenuti, ma a numero chiuso) e in versione pro, potete trovare dei template già pronti — se non avete voglia di sperimentare e crearne proprio di vostri, da zero — per produrre infografiche tradizionali per siti o blog, report, dashboard, grafici singoli, mappe e post sui social network. In particolare trovate disponibili template per infografiche da condividere su Twitter, Instagram, Facebook e Pinterest. Il funzionamento è semplice: potete trascinare nella vostra lavagna di lavoro tutti gli elementi che volete incorporare, dal vostro computer o dall’archivio di Infogram, che include oltre 30 tipi di grafici e ideogrammi e 500 mappe colorate. Potete inserire i vostri dati direttamente in grafica o caricare le tabelle che li contengono. Potete scaricare la vostra creazione in formato png, gif o pdf e farne usi diversi.
Un’infografica dalla Pagina Facebook del Presidente del Lazio, Nicola Zingaretti, spiega gli investimenti decisi dall’Amministrazione regionale per accrescere il parco mezzi delle ambulanze
Altri siti con cui creare gratuitamente visualizzazioni di dati, istogrammi e altri grafici interattivi senza sapere una riga di codice e intendersi non troppo di grafica sono Google Charts, con cui produrre torte, grafici ad albero e altre forme molto tecniche, e Tableau Public, uno dei servizi migliori, sia dal punto di vista delle funzionalità che delle opzioni grafiche. Spaziate fra gli esempi messi a disposizione e fatevi ispirare dai più brillanti. Con ambedue potete creare dei contenuti da embeddare su un blog, oppure rilanciare i link diretti delle vostre produzioni sui social media, magari con un sostegno adv.
Infine, talvolta può essere utile creare delle semplici infografiche animate, postandole come Gif. In questo caso, dopo aver preparato le diverse tavole che compongono l’infografica, potete animarle grazie al sito Giphy (sezioni Gif maker o Slideshow), come ha fatto il Comune di Parigi in questo esempio o in questo.
Interventi grafici e layout. Per rendere più accattivante una fotografia potete arricchirla con testi, piccole grafiche o cornici. Per dare continuità a una serie di immagini che trattano lo stesso argomento potete disegnare dei layout, inserendo badge, banner o titoli. Per rendere un video su YouTube più incuriosente potete creare una copertina interessante che inviti a voler saperne di più. Per valorizzare una citazione potete metterla in grafica, così da farla emergere spiccatamente nel Newsfeed degli utenti. Tutti questi interventi possono essere realizzati con i programmi di grafica a cui abbiamo accennato poche righe fa. Come per le infografiche esistono però dei tool che possono aiutare i meno esperti. Vi consiglio Canva.
Canva, che potete utilizzare sia da desktop che da mobile,mette a disposizione un vasto numero di soluzioni grafiche già pronte, molte gratuite, da adattare alle proprie esigenze o semplicemente da sfogliare per farsi venire nuove idee. Potete avviare una nuova creazione impostando da voi dimensioni e caratteristiche personalizzate, oppure partendo dai template proposti, che includono varie opzioni ideate per i social media. Una volta scelta la strada preferita, si aprirà uno spazio di lavoro con, nella spalla sinistra, una galleria di soluzioni da spulciare. Potete utilizzare una delle fotografie di archivio di Canva, oppure caricare le vostre, o ancora optare invece per uno sfondo illustrato. Sono disponibili anche icone e forme gratuite. Massima flessibilità è prevista per la personalizzazione di font, misure, effetti sul testo e sull’immagine. La versione gratuita mette a disposizione 1 GB per l’archiviazione dei materiali e la possibilità di creare un team di lavoro con 10 membri. Infine, ciliegina sulla torta: se siete delle organizzazioni non profit registrate Canva vi offre l’utilizzo gratuito della sua versione premium.
Ricordate: quando realizzate una grafica per un contenuto che andrà sponsorizzato, alcune piattaforme, come Facebook, potrebbero imporre dei severi limiti sulla quantità di testo che può esservi presente. Per verificare che la vostra immagine sia conforme alle regole consultate direttamente sulle piattaforme di interesse le istruzioni relative alle pubblicità. Facebook ad esempio mette a disposizione un tool per stabilire la quantità di testo presente nell’immagine della potenziale inserzione e darvi il suo benestare o meno (si trova qui). “Facebook preferisce immagini delle inserzioni con poco o senza testo, in quanto le immagini con molto testo potrebbero creare un’esperienza di bassa qualità per le persone”, spiegano le istruzioni del social network. Solitamente se il testo occupa nell’immagine più del 20% dello spazio disponibile potreste avere dei problemi: il post che sponsorizzate potrebbe arrivare a poche persone, o essere addirittura rifiutato dalla piattaforma.
Mappe. Una mappa espande la forza di un racconto offrendo un servizio utile e di facile fruizione alla comunità. La sua creazione richiede un certo sforzo di sintesi, ma è un buon investimento di tempo: le mappe sono un contenuto sempre apprezzato, che può essere rilanciato a più riprese e avere vita lunga. Possono essere statiche e dare una fotografia efficace di un luogo o di una iniziativa; o essere interattive e diventare uno strumento di approfondimento da condividere con gli amici.
Google Maps è il tool più semplice che avete a disposizione per farle, e quello che, naturalmente, le indicizzerà meglio nelle pagine del popolare motore di ricerca. Prendete per esempio questa mappa che abbiamo realizzato con l’Assessorato allo Sport del Comune di Milano. Per raccontare il piano di sviluppo degli spazi pubblici dove fare attività sportive gratuitamente in città (“Milano palestra a cielo aperto”), abbiamo raccolto dai diversi uffici coinvolti gli elenchi di campi e strutture, abbiamo indagato sulle abitudini d’uso dei parchi dei milanesi attraverso contatti diretti con associazioni e gruppi informali, abbiamo creato delle categorie e delle icone per identificare le tipologie di luoghi e messo il tutto in una mappa, poi lanciata sui social media, inserita nel sito del Comune e utilizzata ogni qualvolta fosse necessario dare ai cittadini un quadro delle opportunità per fare sport a cielo aperto.
La mappa interattiva “Milano palestra a cielo aperto”, realizzata con Google Maps
MapBox, che annovera fra i suoi clienti Snapchat e Foursquare, è una valida alternativa se volete costruire mappe più sofisticate e altamente personalizzate. I dati che utilizza incrociano fonti open source, come OpenStreetMap, e fonti proprietarie. Importando una immagine in formato jpg o png con i colori del vostro logo o della vostra campagna dentro Cartogram, lo strumento di disegno di MapBox, e giocando con i filtri disponibili, potete ottenere una mappa in linea con il vostro manuale di stile. Una volta salvato il look che avete ideato, nella sezione Studio potete personalizzare gli elementi della mappa, come il font. La Città di Melbourne, per esempio, lo ha adottato per creare una mappa che usa gli open data ricavati dai sensori dei parcheggi per far conoscere ad abitanti e city user il tempo medio di occupazione dei parcheggi, da zona a zona, e la loro disponibilità, con una attenzione particolare a quelli destinati a persone con disabilità.
La città di Melbourne ha usato Mapbox per realizzare una mappa sul tema dei parcheggi che dialoga con gli open data ricavati dai sensori distribuiti nelle strade cittadine
Risorse sonore
Per accompagnare un podcast, un video o un carosello di immagini potreste avere bisogno di una traccia sonora. Se la cercate gratuita, per prima cosa andate su YouTube. Nel 2013 il portale ha aperto la sua collezione di musiche ed effetti sonori. La qualità di ciò che potete trovare su questa libreria è molto variabile, ma non ci sono costi. Potete filtrare la musica con ricerche per genere, umore, tipi di strumenti, durata e tipo di licenza, con attribuzione della fonte o senza, e i suoni con una ricerca per categorie (ci sono trasporti, voci umane, rumori meteorologici, eccetera). Cliccando sul file che vi interessa saprete come è possibile utilizzarlo, potrete scaricarlo o salvarlo fra i preferiti. Una libreria di file audio con musiche e suoni royalty free è stata messa a disposizione nel 2017 anche da Facebook per gli Amministratori di Pagine. La trovate dentro agli “Strumenti di pubblicazione”, nella sezione “Suoni”.
Una ottima fonte alternativa è Free Music Archive, un archivio, ispirato dal movimento open source, curato dalla radio americana WFMU, con più di 100.000 canzoni disponibili. Uno spazio dove trovare altra musica gratuita è Musopen: il sito mette a disposizione opere i cui diritti di copyright sono scaduti. È quindi il posto giusto se state cercando musica classica, che potete filtrare per compositore, performer, strumento, periodo o tipologia. Trovate i lavori di Chopin, Bach, Schubert, Beethoven, Mendelssohn e altri. Se state realizzando un progetto non commerciale e non profit, il cantante, musicista e compositore Moby ha messo a disposizione per voi sul sito Moby Gratis una serie di suoi pezzi da usare liberamente; potete anche caricare la vostra creazione sul sito, mostrandola al resto del mondo. Fra i siti a pagamento, ma con una ottimo rapporto qualità/prezzo, vi segnalo infine il fornitissimo PremiumBeat.
Altri tool creativi
Per arricchire la vostra cassetta degli attrezzi meritano di essere segnalati, infine, un paio di altri strumenti disponibili in Rete e che possono rendere più creativo e facile il vostro lavoro.
ThingLink è un software finlandese nato per rendere foto, video e file 360° interattivi. Tramite la creazione di annotazioni potete infatti rendere qualsiasi immagine più immersiva e costruire dei veri e propri percorsi di conoscenza. Le evidenti finalità didattiche lo hanno reso un tool molto amato dagli insegnanti, tanto che ThingLink accanto alla sezione “business” ne ha una “education”, con un prezzario speciale per i docenti che volessero investire nelle funzioni avanzate del servizio. L’Ambasciata del Regno Unito in Austria ha usato una serie di foto 360° della residenza viennese dell’ambasciatore per creare un contenuto, diffuso su Facebook che promuove l’iniziativa del Ministero degli Esteri inglesi per l’apertura della sue più belli sedi nel mondo al pubblico. Navigando fra queste immagini è possibile raccogliere informazioni sul palazzo e vedere una video intervista alla curatrice della collezione d’arte del Governo Inglese.
Wakelet organizza invece i vostri link in una raccolta interattiva, creando delle piccole storie a tema. Inserite con un “+” i collegamenti che volete mettere in fila e il sito genererà una pagina da linkare ai vostri follower. Iscrivendovi al servizio avrete un vostro profilo, come in un social network, con l’intera collezione di raccolte che avete creato e anche un servizio di messaggistica interno. Questo sito può esservi utile per fare sintesi su un tema, per generare istruzioni guidate o per riunire delle risorse disponibili online in punti sparsi in un’unica pagina facilmente raggiungibile. La non profit “Save The Asian Elephants”, per esempio, lo usa per promuovere il suo lavoro di sensibilizzazione, valorizzando sia gli articoli usciti sul tema sia le storie e i video inerenti a questi animali in pericolo di estinzione.
Le collezioni di una non profit su Wakelet
Wakelet è considerato uno dei migliori sostituti di Storify, che ha annunciato la sua chiusura definitiva a maggio 2018: se così non fosse avvenuto, lo avrei inserito in questa lista come ulteriore tool da conoscere e usare. La fine di Storify, ottimo servizio che permetteva di creare dei racconti da scrollare integrando fra di loro contenuti dai diversi social media (ben prima che fossero attivate le opzioni per embeddare tweet e post Facebook e Instagram in un sito o un blog e includendo anche una pletora di servizi meno popolari, come SoundCloud), ha sollevato a fine 2017 i malumori di molti utenti, in particolare di giornalisti e content manager con decine di storie create alle spalle. Nella nostra esperienza al Comune di Milano lo abbiamo usato, per esempio, per raccontare le Giornate del Lavoro Agile promosse dall’assessora Chiara Bisconti (quella del 2015, finché resta online, è qui).
Il suo improvviso, inatteso, declino insegna un paio di cose.
Quando vi affidate a siti terzi non ne avete mai veramente il controllo: per questo meglio non sottovalutare l’importanza di avere un presidio proprietario, come un blog, o dimenticarsi di curare il sito istituzionale o di avviare una mailing list con cui raccogliere i contatti personali dei partecipanti alla vostra comunità.
Quando scegliete di usare un servizio terzo informatevi anche sulla sua storia aziendale: se si tratta di una start up tenete in conto la possibilità che potrebbe non avere un futuro solido e quindi usatelo in via sperimentale, senza che diventi il fulcro delle nostre attività online.
Quando producete dei contenuti speciali che prevedono un certo investimento di tempo su piattaforme terze, scaricatevi periodicamente quello che avete pubblicato, così da creare un archivio e non perdere nulla in casi di chiusura di un servizio. È sempre possibile per esempio salvare i contenuti di una Pagina Facebook, scaricare le tabelle che compongono una mappa, fare un backup di account Twitter, eccetera.
Strumenti di pubblicazione
Infine, gestire molti canali, programmare l’uscita di contenuti più volte al giorno, durante un evento o una campagna, e tenere traccia dei rivoli di tutte le attività live può essere sfidante, specie per i team con poche risorse. Meglio investire più tempo nella creazione di contenuti originali che nei meccanismi di pubblicazione. Potete ottimizzare flussi e carichi d’impegno e risparmiare tempo lavorando con il supporto di alcuni strumenti di pubblicazione. Ne esistono molti: vi presento quelli che mi è capitato di adoperare nel mio lavoro e che ritengo ottimi alleati.
Hootsuiteè il popolare servizio di gestione dei social media. Vi permette di svolgere l’attività di caricamento dei contenuti e il loro monitoraggio nello stesso spazio di lavoro, per avere sempre il polso di cosa sta succedendo dentro e attorno ai presidi che curate. Potete per esempio gestire il lancio in contemporanea di contenuti su vari canali; modificare in ogni momento la programmazione, anche dall’app mobile; ascoltare e seguire le reazioni ai contenuti in un’unica dashboard; misurare i risultati di crescita, diffusione di parole chiave, click, e persino osservare il comportamento di specifici account, per esempio quelli che avete inserito in una lista Twitter. Tra le feature interessanti spicca il calendario dei contenuti, che può offrirvi una panoramica di quanto sarà pubblicato prossimamente e orientarvi anche se non siete i primi detentori del piano editoriale. La versione base del software è gratuita, ma con diverse limitazioni: permette di gestire fino a tre profili social, da un unica piattaforma e con una sola password. Potete però utilizzare il periodo di prova delle versioni pro di Hootsuite (ci sono soluzioni “professional”, “team”, “business”) per capire quali opzioni avanzate possono servire alla vostra organizzazione. Per realtà molto piccole potrebbero essere eccessivamente sofisticate, ma alcune funzioni, come la possibilità di dare accesso a tutto il team, sono di grande aiuto per snellire le procedure.
Alcuni social network favoriscono la programmazione con delle funzioni native, come ha fatto Facebook con l’implementazione nelle Pagine della sua sezione Strumenti di pubblicazione, dove potete preparare bozze, vedere i post in programma, creare post temporanei. Generalmente anche le piattaforme di blogging, come WordPress, permettono di “schedulare”. Twitter ha invece fatto una scelta diversa: ha assorbito al suo interno una realtà esterna che aveva ovviato con successo alla mancanza di una opzione di programmazione: Tweetdeck. Oggi potete utilizzare il servizio direttamente dal social network, creando la vostra esperienza personalizzata di Twitter, tenendo traccia delle attività dei diversi account che gestite, creando delle ricerche per non perdere quello che vi interessa.
In conclusione, segnalo, fra i tool di ultima generazione e più evoluti, Opal. Questa piattaforma, di cui potete richiedere una demo ma che è disponibile solo a pagamento, risponde ai bisogni dei gruppi di lavoro ampi, dislocati in luoghi diversi, con abitudini, esigenze e compiti disparati. Può essere molto utile per gestire progetti su scala nazionale, europea o mondiale, che implicano l’esistenza di molti presidi, staff formati da decine o centinaia di persone, fusi orari distanti. Aiuta a tenere i flussi organizzati, grazie a un efficace sistema di approvazione dei contenuti, che possono essere preparati da un content manager e poi approvati dal suo supervisore prima della messa online. Una delle funzioni più utili in assoluto è quella dell’anteprima del contenuto: in Opal create il “fac-simile” di ciò che sarà pubblicato, potete quindi valutarne l’efficacia con rapidità e aggiustare quello che vi sembra ne abbia bisogno.
Sperimentate e scegliete il vostro preferito.
Una raccomandazione, per tutti: attenzione a programmare! In ambiti particolarmente esposti all’occhio del grande pubblico, come quelli relativi a un’istituzione o a un esponente politico, ogni contenuto viene letto con particolare sensibilità anche in base al contesto temporale. Bisogna usare prudenza nel programmare un contenuto freddo con largo anticipo, perché le condizioni esterne potrebbero mutare: un’emergenza, una crisi politica oppure una notizia di cronaca particolarmente efferata potrebbe rendere un contenuto già approvato fuori luogo dal giorno alla notte. Programmare aiuta, ma avere il polso di quanto sta avvenendo intorno a voi ancora di più. Questo — per ora — una macchina non potrà farlo al posto vostro.
Avete ulteriori strumenti, risorse o consigli da condividere circa la vostra esperienza come creatori di contenuti per i media sociali e digitali? Usate i commenti per farmelo sapere.
Volete saperne di più sull’uso dei media sociali per la comunicazione pubblica? Qui potete trovare il manuale “Social media per la Pubblica Amministrazione”.